È IL MOMENTO DI SEGNALI FORTI
Il pacchetto di misure sulla crescita, quello che, per intenderci, avrebbe dovuto essere varato a inizio luglio contestualmente alla manovra e che era stato poi annunciato per il Consiglio dei ministri di questa settimana, verrà invece presentato fra 15 giorni. Dato che sarà scritto a più mani (il ministro Tremonti è stato di fatto commissariato dai suoi colleghi), presumibile che i tempi slitteranno ulteriormente. Nel frattempo si attivano nuovi tavoli tecnici e si tiene ancora in sospeso la nomina del successore di Draghi a via Nazionale. Tutti questi rinvii non spaventerebbero se si fosse davvero allentata la crisi del debito e se questi tempi più lunghi fossero il preludio di riforme coraggiose e lungimiranti. Purtroppo non è così.
Lo spread è tornato ai livelli di prima dell’approvazione della Finanziaria e non c’è nessun piano di salvataggio alle porte per paesi della dimensione di Italia e Spagna. Il piano di cui si è fantasticato a inizio settimana come esito degli incontri di Washington, semplicemente non esiste a detta di tutti coloro che hanno partecipato ai meeting. L’unica novità è la proposta francese di permettere al fondo salva-Stati già oggi esistente (quello che, per intenderci, vive solo sulle garanzie senza avere ancora un capitale versato) di indebitarsi come una banca, operando a leva, il che gli permetterebbe di concedere prestiti (o comprare titoli di stato) anche fino a dieci volte il capitale. Ma prima che questo avvenga bisogna che il fondo sia effettivamente dotato di un capitale proprio e le sue prerogative vengano estese. Inoltre la sola voce di un possibile finanziamento a leva ha fatto lievitare in modo consistente lo spread sui titoli che il fondo ha emesso per finanziare i prestiti a Grecia e Portogallo e sarebbe in vista un downgrading del fondo con perdita della tripla A. A quanto pare, i miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci non sono terreni.
Quanto all’utilità della “pausa di riflessione” che il nostro governo si è ulteriormente concesso, l’impressione è che serva solo a reperire risorse per finanziare “spesa per lo sviluppo”, mediante interventi straordinari come vendite di immobili, condoni o nuove tasse, come se la manovra estiva non avesse già portato la pressione fiscale al 45 per cento e le entrate sul pil al 50 per cento. Nessun accenno alle riforme a costo zero, quelle che non richiedono il prelievo di un solo euro dalle casse dello Stato. Neanche all’opposizione sembrano essere prese in considerazione. Ecco una collezione di citazioni di politici del centro-sinistra: «Con l’austerità cieca delle politiche di bilancio, la crescita è impossibile per un lungo periodo», poco possono le mitiche “riforme strutturali””, «sì, d’accordo con le liberalizzazioni, ma se non ci sono soldi, non c’è sviluppo».
Liberi questi politici di non credere alle riforme a costo zero. Se ne sono fatte così poche in Italia, che i benefici tratti da questi interventi in termini di maggiore occupazione e salari e prezzi più bassi, possono essere loro sfuggiti, anche quando le riforme portavano il nome dell’attuale segretario del Pd. Ma vorremmo che almeno tenessero conto del fatto che i rischi di una nuova recessione sono oggi in gran parte legati a un problema di accesso al credito. Sono aumentati del 10 per cento in agosto sia i costi dei mutui sulla casa che i tassi medi praticati alle imprese, pur in un contesto di tassi interbancari calanti, nell’attesa di un ribasso del tasso della Bce. Questo è un segno inequivocabile del fatto che le banche, di fronte alla pesantissima svalutazione dei loro patrimoni associata alla perdita di valore dei titoli di stato che hanno in portafoglio, stanno tagliando fortemente i finanziamenti a imprese e famiglie. La prima cosa da fare per lo sviluppo del Paese è dunque evitare un “credit crunch”. Dato che il problema è legato alla crisi del debito pubblico, non c’è mai stato legame così stretto tra credibilità del consolidamento fiscale e sviluppo. Ogni euro di spesa pubblica improduttiva risparmiato servirà ad evitare che alle imprese e alle famiglie venga chiuso il rubinetto del credito. Mentre ogni segnale dato ai mercati di un ritorno alla spesa facile, ogni allontanamento ulteriore dall’obiettivo del bilancio in pareggio (secondo le stime del Fondo monetario, non ce la faremo entro il 2013), rende più stringente la stretta creditizia.
Bene hanno fatto perciò le associazioni dei datori di lavoro a chiedere al governo interventi immediati e a proporre, nel loro Manifesto, liberalizzazioni importanti e misure di contenimento della spesa pubblica. Meglio ancora se avessero dato il buon esempio proponendo un significativo sfoltimento dell’intricato e costoso sistema di incentivi alle imprese, almeno finché la loro efficacia non sarà attentamente valutata. Singolare anche che in un documento firmato anche dall’Abi non si affronti il problema dell’accesso al credito da parte soprattutto delle piccole imprese. Mentre si chiede, nero su bianco, una “tassa patrimoniale”, un termine che può spaventare molti investitori: dato che si tratterebbe di un’imposta ordinaria, destinata a durare nel tempo, perché non proporre esplicitamente di reintrodurre l’Ici sulla prima casa per ridurre le tasse sul lavoro?
C’è bisogno in questo momento di segnali forti, in grado di invertire le aspettative dei mercati. Eccone uno, anch’esso, a costo zero: si fissi una data certa per le elezioni e, in cambio di questo impegno a votare in tempi relativamente brevi, si ottenga dall’opposizione il sostegno a non più di due o tre misure per la crescita di cui condividere la responsabilità di fronte agli elettori. È anche in virtù di un accordo di questo tipo che la Spagna, che a inizio estate era considerata più a rischio dell’Italia, oggi viene ritenuta dai mercati molto più affidabile del nostro Paese. Purtroppo sembra da noi lontano anni… neutrini.
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