Dalle promesse all’ultimo crollo l’anno terribile degli scavi di Pompei
A POMPEI da giorni si guardava intensamente il cielo. Appena diventava grigio, tornava l’incubo della pioggia che gonfiava d’acqua il terrapieno dietro i muri di via dell’Abbondanza. Dal 6 novembre 2010, quando venne giù la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), è passato un anno. Ma poco è cambiato. E il crollo c’è stato.
HA ceduto il muro di cinta nei pressi di Porta Nola, nella zona Nord degli scavi archeologici. Promesse, giuramenti: non è arrivato neanche un soldo di quelli annunciati più volte e neanche un’assunzione è stata avviata. E così il sito – sessantasei ettari di cui quarantaquattro scavati, stesi sotto un cielo nero e ostile – è rimasto senza le protezioni che erano state assicurate dopo che lo sbriciolarsi dei muri aveva scioccato il mondo intero. Mercoledì 26 arriva a Pompei il commissario europeo Johannes Hahn che dovrebbe dare il via libera allo stanziamento di 105 milioni di euro. Una somma che, stando ai trionfalismi del ministero, sembrava già nei cassetti da mesi. «Gravissima è la responsabilità dei Beni culturali di non avere saputo proporre alcuna soluzione: né in termini economici né di risorse umane», è il commento di Maria Pia Guermandi del Consiglio nazionale di Italia Nostra.
Tutti sono d’accordo, almeno a parole, che solo una capillare, costante manutenzione ordinaria può mettere al riparo Pompei dai disastri. È scritto in un piano redatto dalla Soprintendenza e approvato dal ministero. Lo ha ribadito il rapporto dell’Unesco, che rinvia ma non cancella l’ipotesi di inserire gli scavi vesuviani nella lista dei beni in pericolo. Ma i mezzi e gli uomini a disposizione della Soprintendenza diretta da Teresa Cinquantaquattro non bastano. «In un anno abbiamo completato la mappatura di tutto lo scavo e cercato di tamponare le situazioni di massima emergenza. Ma senza quei 105 milioni e senza assunzioni i progetti di messa in sicurezza e di restauro non possiamo realizzarli», spiega la soprintendente. E così prima il ministro Giancarlo Galan, poi il sottosegretario Riccardo Villari sono arrivati ad ammettere che davvero un’abbondante pioggia avrebbe potuto di nuovo trascinare con sé terra, fango e muri antichi. Almeno le profezie al ministero le azzeccano.
L’ultima mazzata si è abbattuta giovedì sera al Senato. Dove è stato stralciato dal disegno di legge di stabilità , approvato cinque giorni prima dal Consiglio dei ministri, il comma sulle assunzioni di nuovo personale a Pompei. Non c’entrava niente con quel ddl e ora seguirà un iter autonomo. «Al ministero sono in stato confusionale», commenta Guermandi. E così affinché arrivino una ventina fra archeologi e tecnici (ma all’inizio si diceva una trentina) occorre aspettare ancora. E intanto la situazione si è fatta disperata. Mancano vigilanti e non si riesce a coprire tutti i turni. Il laboratorio degli affreschi conta su tre restauratori soltanto. Gli archeologi sono sei, gli architetti sette e oltre che a Pompei lavorano a Ercolano, Oplonti e Stabia. Gravissime sono le carenze fra i capotecnici, figure essenziali per vigilare i cantieri, che così sono affidati integralmente alle ditte esterne.
È un anno che si parla di nuove assunzioni. I rinforzi erano garantiti dal decreto legge approvato ad hoc per tacitare lo scandalo pompeiano nel marzo scorso. Sono stati sbandierati prima da Sandro Bondi e poi da Galan come il segno di una risposta forte dello Stato. Recentemente è stato Villari, new entry nel governo e ora investito di una delega speciale per Pompei e l’area napoletana (ha anche aperto un ufficio in Castel dell’Ovo, sul lungomare partenopeo) a indicare e poi spostare in avanti le scadenze: fine settembre, fine ottobre… Ma non è accaduto nulla. Eppure c’erano graduatorie pronte, frutto di un concorso svoltosi due anni fa. Archeologi e architetti idonei erano in attesa di chiamata.
Altro capitolo doloroso, quello dei soldi. Ancora nei giorni scorsi Villari “si augurava” che i 105 milioni sarebbero stati “scongelati” in occasione della visita del commissario europeo. Teresa Cinquantaquattro insiste: «Allo stato attuale abbiamo speso solo i pochi soldi della Soprintendenza. Tutto quel che avevamo è impegnato». Ma la macchina burocratica sarà lenta e complessa. Un ruolo negli interventi a Pompei lo avrà anche Invitalia, società pubblica a metà fra il ministero dell’Economia e quello guidato da Fitto. La cui mission, come si legge sul sito, c’entra poco con l’archeologia: favorire l’attrazione di investimenti esteri, sostenere l’innovazione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le potenzialità dei territori. La comparsa sulla scena pompeiana di Invitalia è recente: nel decreto di marzo si parlava dell’apporto di un’altra società , Ales, questa sì di proprietà dei Beni culturali.
Ma a Pompei nutrono anche altri timori. Villari, sempre lui, ha fatto capire che i soldi promessi da un gruppo di investitori francesi (che potrebbero arrivare a 200 milioni) sono legati a una serie di iniziative fuori del sito archeologico promosse da imprenditori napoletani. Che, tradotto, vuol dire infrastrutture, alberghi e altro. Oltre alla pioggia, su Pompei potrebbe abbattersi un diluvio di cemento.
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