Dal Quirinale un richiamo senza precedenti

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NAPOLI — E’ un avvertimento proporzionato al livello della sfida lanciata da Bossi. Un durissimo altolà  all’ipotesi, evocata ancora dieci giorni fa dal leader della Lega tra Pontida e Venezia, di staccare il Nord dal corpo della Nazione. Uno scenario sul quale il presidente della Repubblica racconta d’essersi interrogato, «cercando di capire da dove nascano quelle grida».

Premette anzitutto che «il popolo padano non esiste», e «il messaggio è chiaro», sottolinea. Aggiunge poi, con interrogativo retorico, che gli sembra «grottesco» anche solo «proporsi di creare, che cosa?, uno Stato Lombardo-Veneto che magari calchi la scena mondiale competendo con Cina, Brasile, Stati Uniti, Russia?» E, concesso che si può «strillare in un prato ma non si può cambiare il corso della storia», spiega che, mentre è certo «lecito discutere del federalismo e delle autonomie», non c’è invece «spazio nelle leggi e nella Carta per una via democratica alla secessione».

Così, incalza Giorgio Napolitano, «ove dalle chiacchiere, dalle grida, dalla propaganda, dallo sventolio delle bandiere si passasse ad atti preparatori di qualcosa che viene chiamata secessione, beh, allora tutto cambierebbe». Un esempio di che cosa potrebbe succedere nell’eventualità  che si materializzasse «un simile pericolo» gli fa rievocare «il biennio 1943-44 in Sicilia, quando l’appena rinato Stato italiano, di fronte a un tentativo di organizzazione armata separatista, non esitò a intervenire in modo piuttosto pesante con la detenzione di Andrea Finocchiaro Aprile». Il quale — per inciso — fu confinato a Ponza nel 1945 (assieme a due altri esponenti del movimento, Nino Varvaro e Francesco Restuccia), mentre la guerriglia continuò fino al marzo ’46.

Il senso del richiamo ai capi leghisti è inequivocabile e minaccioso. Senza precedenti: non tirate troppo la corda, perché la Repubblica una e indivisibile sarebbe costretta a difendersi. Non aizzate la vostra gente a varcare una soglia proibita. Non provateci. Neppure invocando astratti principi di autodeterminazione o di sovranità  del popolo perché «ci si dimentica sempre che l’articolo 1 della Carta, dopo aver detto che la sovranità  appartiene al popolo, continua puntualizzando: “Che la esercita nei limiti della Costituzione”». Meglio restare dunque nei limiti della «evoluzione positiva» perseguita dalla Lega tra il 2006 e oggi, «accantonando le proposte del professor Miglio». La strada cioè del federalismo fiscale e di una costruzione federale dello Stato per cui «si discute del superamento del bicameralismo perfetto per far nascere una Camera delle Autonomie come quelle che esistono in Germania, Francia e altri Paesi».

Non basta. All’aspro «de profundis» per le tentazioni secessioniste il capo dello Stato — che si lascia interrogare da professori e studenti di giurisprudenza dell’Università  di Napoli — associa un esplicito «requiem» per l’attuale sistema di voto. E non sembra casuale che se lo conceda proprio nel giorno in cui è appena stato raccolto più di un milione di firme per cancellare il cosiddetto Porcellum. Dice il presidente: «Non tocca a me fare nuove leggi, ma mi pare che ci sia la necessità  di una nuova legge elettorale», anche per determinare «un ritorno di fiducia».

Quella di oggi, infatti, «ha interrotto un rapporto di responsabilità  che esisteva tra elettore ed eletto… Non voglio idealizzare il sistema delle preferenze che c’era prima, perché tutti sappiamo quali limiti avesse, ma solo dire che prima c’era un sistema più diretto… Adesso non pare che sia tanto importante fare bene in Parlamento quanto tenere buoni rapporti con chi ti nomina deputato». Sarebbe un modo, conclude, per sgombrare il «velo oscuro» che incombe sulle istituzioni. In particolare su quelle «ai piani più alti», considerato che «più si va a livello di base, ad esempio nei comuni, più si avverte la vicinanza della gente a quella articolazione dello Stato, e la situazione per fortuna cambia».


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