Dai sudisti alle spie dell’Urss quando lo scambio conviene
Come i vecchi soldati che secondo il generale Douglas MacArthur «non muoiono, ma scompaiono nel nulla», così le spie si dissolvono nell’ombra della più onorata tradizione del “grande gioco” segreto: lo scambio. Per una Mata Hari fucilata dai francesi, per i coniugi Rosenberg torturati sulla sedia elettrica, per un Oleg Penkovsky freddato con un colpo alla nuca nelle segrete del Kgb a Mosca, centinaia sono invece gli agenti, i doppiogiochisti, le spie quietamente scambiate come pedine ormai inutili. E centinaia di migliaia nella storia sono stati i prigionieri di guerra che i nemici hanno restituito in cambio dei propri. Lo imporrebbe addirittura la sempre citata e raramente osservata Convenzione di Ginevra dal 1929. Non esiste, come la vicenda del soldato israeliano Shalit dimostra, un tariffario stabilito, un rapporto di cambio riconosciuto.
Le circostanze, la politica, il valore propagandistico, positivo o negativo, dello “swap”, dello scambio, determinano il valore e quindi il prezzo. Per Francis Gary Powers, pilota dell’aereo spia U-2 abbattuto dai sovietici nel 1960 e trasformato da semplice aviatore qual era a superspia imperialista dalla propaganda di Khruscev, il Cremlino ottenne un pezzo da 90, un alto ufficiale del Kgb, il colonnello Vilyam Fisher – in arte Rudolf Abel – che aveva scavato nei segreti degli Stati Uniti. Per decenni, il Nord Vietnam utilizzò i prigionieri del famigerato “Hanoi Hilton”, il lager dei piloti abbattuti, come merce per strappare concessioni a Washington. Fino a utilizzare addirittura i resti, le ossa dei caduti.
Come tutto nel “grande gioco” delle spie e delle guerre, sporche o pulite che siano, nulla è mai quello che sembra, o che ci viene raccontato. Nel novembre del 1985, un disertore del Kgb con 25 anni di carriera e un alto grado, Vitaly Yurchenko, rivelò alla Cia il nome di due funzionari americani che lavoravano per l’Urss, scatenando all’interno dell’agenzia una “caccia alla talpa” che la paralizzò nella paranoia. Yurchenko, invitato a pranzo in un famoso bistrò di Georgetown, a Washington, il “Pied du Cochon”, si alzò da tavola, disse ai due badanti della Cia che sarebbe andato a «fare un giretto» e li salutò con questo messaggio: «Voglio che si sappia che non è stata colpa vostra se sono fuggito». Yurchenko riapparve qualche mese più tardi a Mosca ricevendo la massima onorificenza dell’Ordine della Stella Rossa. Perché fu lasciato andare, sotto il naso dell’agenzia americana senza alcuna apparente contropartita, rimane, ancora oggi, un mistero.
Il più recente e pubblicizzato scambio di spie in stile Guerra Fredda, alla Le Carré o Deighton, avvenne un anno fa e fu un evento all’ingrosso. Sulla pista dell’aeroporto di Vienna, una delle mitiche capitali del “grande gioco” insieme con Berlino, dieci persone incriminate per spionaggio a favore della Russia del “caro amico Vladimir” Putin furono consegnate ai russi, in cambio di quattro americani che languivano nelle prigioni di Mosca. Un rapporto di dieci a quattro a favore di Putin, aggravato dalla presenza, fra quei dieci, della “fox”, della volpe Anne Chapman, la bellissima modella che aveva utilizzato a New York la propria bellezza per far scattare la più vecchia e sempre efficace, delle trappole, la “trappola del miele” e catturare mosche americane. Ma la scena, ripresa dalle telecamere, sembrava più una riedizione in stile reality show dei torvi, tesi, ansiosi scambi di spioni sul luogo deputato a questo mercato delle spie, il ponte di Glienicke che separava Potsdam, la capitale della Germania comunista, da Berlino Ovest.
Nulla a che vedere con il dramma del soldato Shalit, della sua lunga prigionia, dello scambio con i palestinesi rastrellati dal governo israeliano, in apparenza. Eppure con un segno comune, che lega tutta la lunghissima storia di prigionieri che i nemici mortali accettano di rimandare al mittente in cambio dei propri uomini e donne. Dietro il dramma e la sceneggiatura di questi eventi, si nascondono sempre un contatto, un negoziato, un compromesso fra le parti in lotta, che siano Nordisti e Confederati Sudisti, quando si scambiavano ormai verso la fine della Guerra Civile migliaia di macilenti prigionieri rinchiusi a languire e morire nei loro lager, Americani e Sovietici nell’ora della “distensione”, Nord Vietnamiti e Americani quando le ragioni della guerra cominciarono a recedere davanti alle ragioni della pace. C’è il segno che qualche barlume di umanità comincia ad accendersi dietro l’odio ideologico, politico, etnico. O forse è soltanto qualche indizio di interessi comuni. Il che è ancora meglio della pietà e dell’umanità .
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