by Sergio Segio | 6 Ottobre 2011 6:53
Miracolosamente sopravvissuto all’auto-espulsione, decisa quando sentenziò con solennità su La Padania del 26 luglio 1999 che «chi farà accordi con l’Ulivo e con Berlusconi sarà espulso dalla Lega», il Senatur è indeciso: cosa fare di ogni traditùr che emerge giorno dopo giorno?
In altri tempi, non ci avrebbe pensato un minuto: raus! Ma le cose, oggi, si sono fatte più complicate…
Come la pensi Bossi si sa. Lo ha ribadito mille volte: «La Lega è il partito più democratico di tutti». Salvo precisare: «Io sono un segretario semplice, che si comporta semplicemente. Se uno pianta casino, vedo che non ha interesse per il federalismo e la Padania, lo mando via, non perdo tempo». Tesi ribadita con un riferimento trasparente a Roberto Maroni, al sindaco di Verona Flavio Tosi e a quello di Varese Attilio Fontana, rei di avere posizioni non sempre allineate: «Ci metto due secondi a chiedere al Consiglio federale l’espulsione di chi si mette di traverso, anche se ci sono persone importanti».
Dialettica brezneviana in salsa verde. Assai apprezzata da diversi «federali» sparsi per il territorio. Come il segretario provinciale di Treviso Gianantonio Da Re che, appena Giancarlo Gentilini ha osato dire la sua («È inutile fare il sogno della Padania e della secessione: l’Italia è una, quando noi della Lega avremo il 50% più uno dei consensi ne riparleremo») ha intimato: «Se dice ancora una sola parola contro la Padania e la secessione è fuori del partito». Epurazione sostenuta anche dal senatore Piergiorgio Stiffoni, il quale, famoso per una sparata himmleriana su certi immigrati rimasti senza tetto a Treviso («peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto») ha liquidato lo storico sindaco-sceriffo in due parole che sarebbero state bene in bocca a un funzionario di Lavrentiy Beria: «È un virus da estirpare».
È una storia lunga, quella delle epurazioni nel Carroccio. Lo sa bene lo stesso ministro degli Interni, che nel 1994, illuso da un sondaggio di Famiglia Cristiana che lo dava più popolare del Senatur, osò ribellarsi alla decisione di buttare giù il governo Berlusconi: «Può uno come me assistere allo squagliamento del partito perché il suo leader ha sbagliato tutto?». Finì con una fischiata al congresso, una selva di insulti (fra i tanti, quello di Erminio Boso: «È uno scimmiotto ammaestrato ad Arcore»), uno striscione che diceva: «La Lega ce l’ha duro e i Maroni ce li ha sotto». L’epilogo: dovendo scegliere tra tornare a fare il dipendente della Avon o andare a Canossa, «Bobo» si cosparse il capo di cenere: «Bossi ha sempre ragione». Cosa che gli tirò addosso le ironie di Irene Pivetti: «Pare un rieducato di Pol Pot».
Fu l’unico, a scamparla, Maroni. «Dovevo ancora risarcirlo per il bidone di vernice che una volta gli avevo rovesciato nella macchina nuova», avrebbe ridacchiato mesi dopo l’Umberto. A tutti gli altri dissidenti è andata in maniera diversa. Basti ricordare la lista di quanti, nello studio del notaio Giovanni Battista Anselmo di Bergamo, diedero vita nel 1989 alla Lega Nord: pochi anni dopo i superstiti sarebbero stati solo tre: Umberto Bossi, Francesco Speroni e Gipo Farassino. Tutti gli altri, uno ad uno, erano stati espulsi o costretti ad andarsene.
È andata così fin dall’inizio, dai tempi della Liga veneta. Espulso Achille Tramarin, il primo parlamentare a parlare in dialetto alla Camera. Espulso Graziano Girardi, che vendeva mutande e flanelle nei mercati ed era finito per primo a Palazzo Madama. Espulso Franco Castellazzi, padrone di una discoteca con striptease maschili, presidente del movimento e primo capogruppo leghista alla Regione Lombardia: «Bossi diceva che me la facevo con Craxi, la Cia e il Kgb».
E poi espulsi, tra i fondatori, il ligure Bruno Ravera e gli emiliani Giorgio Conca e Carla Uccelli e il toscano Riccardo Fragassi e il piemontese Roberto Gremmo, liquidato a sentire Castellazzi «con una storia tutta inventata di film porno, fellatio e marocchini». E poi espulsi il fondatore della Liga Franco Rocchetta e la moglie Marilena Marin, colpevoli di contestare la guerriglia bossiana contro il primo governo del Cavaliere: «Traditori! Cospiravano per fare il partito unico berlusconiano». E ancora espulsi tutti i parlamentari contrari alla decisione del Senatur di abbattere l’esecutivo Berlusconi. A partire da Luigi Negri, fratello della moglie di Calderoli, Sabina, la quale avrebbe raccontato in una irresistibile intervista a Claudio Sabelli Fioretti del cataclisma familiare di cui fece le spese, a Natale del 2004, anche un cappone (che restò sulla tavola senza che alcuno avesse voglia di mangiarlo) e della spietatezza del marito contro i parenti-serpenti che chiamava «I coniugi Ceausescu». Una dedizione al capo che l’attuale ministro per la Semplificazione aveva totale: «Roberto espellerebbe anche me se glielo chiedesse Bossi».
Tra le vittime dell’epurazione, oltre alla moglie di Luigi Negri, Elena Gazzola, allora presidente leghista del Consiglio comunale milanese, finì perfino la loro cagnetta Gilda, rea di scodinzolare in modo anti-bossiano ed espulsa da Palazzo Marino con una insuperabile disposizione «ad-canem» dell’allora sindaco Marco Formentini, che a sua volta sarebbe stato successivamente convinto ad andarsene per passare al centrosinistra.
E via così. Fuori, con un gran sbattere di porte, il primo ministro leghista al Bilancio, Mimmo Pagliarini. Fuori il primo ministro all’Industria, Vito Gnutti, bollato da Bossi come «il nano della Val Sabbia». Fuori il fedele autista Pino Babbini: «L’Umberto mi accusò d’avergli rubato una macchina fotografica, ma anche che gli insidiavo la moglie. Tutte balle. Qualcuno nella Lega non voleva che gli dicessi quello che non andava». Fuori, prima di una successiva riconciliazione, l’ideologo Gianfranco Miglio, liquidato dal Senatur come «una scorreggia nello spazio».
E poi fuori Elisabetta Bertotti, la «miss Camera» che aveva osato dire che alle comunali di Trento il candidato leghista era così razzista che avrebbe votato il candidato dell’Ulivo. Fuori il primo capogruppo Luigi Petrini. Fuori il segretario della Liga veneta Fabrizio Comencini. E fuori Irene Pivetti, la prima presidente leghista di Montecitorio, che per aver ricordato come la secessione non fosse nello statuto né fosse stata «decisa da alcun congresso» fu espulsa con un sovraccarico di insulti: «L’eretico sarei io? Ma digh de andà a da via el cu..». E fuori ancora Domenico Comino, già capogruppo alla Camera, colpevole di avere teorizzato l’alleanza con la destra due mesi troppo presto rispetto al «contrordine, padani» del segretario.
Tutti fuori. Inseguiti da invettive che ricordano l’espulsione di Baruch Spinoza dalla comunità ebraica di Amsterdam: «Che la collera e l’indignazione del Signore lo circondino e fumino per sempre sul suo capo». E meno male che non esiste una Siberia padana coi campi di rieducasiùn…
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