COSàŒ LA METAFORA DI PINOCCHIO SPIEGA L’ITALIA
Se si fosse compreso Pinocchio, si sarebbe compresa l’Italia –dichiarava Prezzolini nel 1923. Mentre il secondo obiettivo è lontano dall’essere stato raggiunto – mai come oggi gli osservatori stranieri guardano al nostro Paese come a un curioso paradosso – neanche il primo è stato del tutto centrato. Benché quello di Collodi sia il libro italiano di gran lunga più tradotto nel mondo – in circa duecento lingue –, oggetto di produzioni filmiche, traino di un’inesauribile industria di giocattoli, per non parlare della valanga di interpretazioni cui ha dato luogo, il segreto del suo successo resta ancora racchiuso in quel corpo di legno. Cosa vuol dire quel burattino che si muove da solo, senza fili cui appendersi? Come vanno intese le bugie che gli fanno crescere il naso – come follie all’interno di una società sana o come implicite denunce di una società folle? E il suo diventare bambino è una forma di normalizzazione disciplinare o l’effetto di autoeducazione? Un processo di soggettivazione o una pratica di assoggettamento?
Una serie di risposte a queste domande arrivano adesso da un’ampia ricerca di Suzanne Stewart-Steinberg, docente di Italian Studies all’Università di Brown in America, pubblicata da Elliot con il titolo L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità . Diversamente da coloro che hanno puntato su una sola carta interpretativa, l’autrice mette in campo una complessa strategia ermeneutica che sovrappone sguardi diversi, di carattere storico, antropologico, psicoanalitico. Pinocchio è un doppio costituito all’incrocio di elementi opposti. Egli è insieme burattino e ragazzo, oggetto e soggetto, macchina e corpo. E ancora, fabbricato per obbedire ma inguaribilmente indisciplinato, bugiardo ma capace di testimoniare un’esperienza collettiva, plasmabile ma insofferente di ogni vincolo. La sua caratteristica fondamentale è la “scioltezza”, una sorta di elasticità del corpo e della mente che gli impedisce di stare fermo, condannandolo ad una perenne agitazione. Per non parlare della sua capacità di metamorfosi, che lo situa a metà tra un personaggio di Kafka e un materiale estetico di Duchamp.
Ma cosa ha a che fare, tutto ciò, con il carattere degli italiani? In che modo i burattini costituiscono un’allegoria dello spirito italiano, come sosteneva Yorick nella sua Storia del burattini del 1884? Assimilabili nel Rinascimento ad icone religiose – come le mariettes, statuine della Madonna – essi si mischiano nel Settecento alle maschere della commedia dell’arte, per poi acquisire una forma di dipendenza, non più da Dio, ma dalla precisione tecnologica delle macchine. In questo senso essi riproducono il mutamento che, dopo l’unificazione, investe gli italiani a partire dallo statuto del corpo e dalla sua connessione con la volontà e la ragione. Quando, nel 1882, Pasquale Turiello pubblica la sua indagine storico-antropologica dal titolo Governo e governati in Italia, perviene, certo con altro linguaggio, ai medesimi risultati: gli Italiani sono caratterizzati da una singolare miscela di creatività e di inerzia, non sanno sottomettersi a norme collettive, tendono sempre a subordinarle al proprio interesse personale o familiare, mancano del senso del limite, come del resto aveva diagnosticato Francesco De Sanctis. Non è difficile scorgere in questo deposito di umori, l’esito di una storia difficile, l’annuncio di quanto ancor oggi affligge un Paese succube a burattinai di dubbia propensione al bene comune.
E tuttavia tutto ciò non va interpretato soltanto come una forma di immaturità che trattiene la cultura italiana al di qua della soglia della modernità , ma anche come una diversione, o una mossa di cavallo, che le consente di oltrepassarla. Quando l’autrice parla di crisi del soggetto liberale, allude a questa singolare attitudine, da parte di autori o testi italiani del periodo, di sintonizzarsi precocemente con quella svolta che in anni successivi sarebbe stata definita biopolitica. E cioè si riferisce al passaggio da una concezione classica del soggetto, padrone di se stesso e capace di decidere del proprio destino politico, ad un soggetto attraversato da una serie di impulsi psichici e fisici che egli non è in grado di dominare. A tale svolta rimandano, ad esempio, gli studi dello psichiatra Enrico Morselli sugli stati ipnotici, che anticipano le intuizioni di Freud sulla psicologia di massa, sempre esposta alla forza di suggestione di leaders carismatici. Cos’altro è il soggetto succube del potere autoritario o del disciplinamento di massa, se non una sorta di burattino senza fili che crede di muoversi autonomamente? E non ha a che fare, quella scienza della ginnastica, cui si dedicano, insieme all’igiene, i pediatri italiani, con la “rigida scioltezza” di Pinocchio? Ciò che questi autori colgono, a volte oscuramente, è la centralità del corpo – dei suoi umori, dei suoi traumi, dei suoi desideri – che va ben oltre la volontà razionale del soggetto per affondare nella falda naturale della vita biologica. In questo senso Effetto Pinocchio, aldilà dei suoi riferimenti storici e letterari, ci parla di noi – della nostra condizione contemporanea, spesso preda di forze cui non sappiamo resistere, che influenzano la nostra vita senza che neanche ce ne accorgiamo.
Nel racconto Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis, sconosciuto al grande pubblico a vantaggio dell’esangue moralismo di Cuore, vi è in primo piano il corpo erotico ed erotizzato, colto nel dolore, e nel piacere, masochista di sperimentare la propria impotenza. Forse per capire cosa spinge oggi donne o uomini a farsi legare, sospesi nel vuoto, ad un gancio di ferro che ne irrigidisce le membra, bisogna andare a leggere anche in testi come questi. Negli stessi anni, in ambito diverso, Cesare Lombroso apre il grande teatro dei corpi parlanti attraverso i segni criminali, che modifica in senso somatico il paradigma giuridico di Beccaria, ancora fondato sul presupposto illuministico del libero arbitrio individuale. Ma è forse il saggio Sull’infanticidio di Scipio Sighele – con al centro la figura ambivalente della madre dolorosa, vinta da una irresistibile potenza omicida che ne attenua la colpa individuale – a restituire meglio il tratto, insieme pre e postmoderno, che attraversa la cultura italiana del periodo. I corpi dei bambini, liberamente disciplinati dal metodo di Maria Montessori, sottomessi ma anche provocati dal silenzio della maestra, costituiscono il vertice di questa piramide biopedagogica. Fin quando la tradizione interpretativa resterà bloccata all’immagine di maniera dell’arretratezza italiana, senza porsi ulteriori domande, un intero regime di senso resterà ancora sommerso. O chiuso nel corpo di legno dei nostri molteplici pinocchi.
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