Cosa non è cambiato nel «nuovo» Egitto
«Cosa accade al nostro paese», si domandano increduli tanti egiziani di fronte alla carneficina dell’altra sera al Maspero. Ma la domanda più lecita è «Cosa non è accaduto?». Otto mesi fa, esattamente in questo giorno, Hosni Mubarak era stato costretto a mettere fine al potere che aveva avuto tra le mani per ben trent’anni, sotto la pressione di milioni di egiziani che occupavano da 18 giorni piazza Tahrir e molte altre strade del paese. A spingerlo a muovere quel passo erano stati anche i generali del Consiglio supremo delle Forze Armate (Csfa), che si erano fatti garanti della rivoluzione e del suo cammino verso la nascita di un nuovo Egitto. Oggi appare evidente che quelle parole, quelle promesse di una rapida transizione verso un paese libero e moderno erano soltanto slogan coniati per quei giorni esaltanti.
Il presente dell’Egitto è molto simile ai passati trent’anni. Sono cambiati gli egiziani, decisi a non mollare e a raggiungere gli obiettivi sognati per lungo tempo – come dimostrano anche le lotte operaie e gli scioperi continui in ogni angolo del paese. Ma il regime, che i generali hanno sempre sostenuto e rappresentato nella sostanza, non è mutato: la rivolta ha eliminato dalla scena politica Hosni Mubarak, i suoi figli e un po’ di personaggi della politica e dell’economia troppo compromessi con l’ex raìs. Nulla di più.
Il percorso seguito dai militari parla chiaro: riforme appena accennate, un sistema elettorale pieno di ambiguità , una ricerca ossessiva della stabilità e del mantenimento dell’ordine sociale (strizzando l’occhio ai Fratelli musulmani), nessun cambiamento vero nel mondo del lavoro e del sistema economico, rimasto saldamente in mano ai soliti nomi. In aggiunta a ciò il Csfa trova legittimo processare l’ex raìs Mubarak, accusato di reati gravissimi, in una corte civile – mentre riserva i tribunali militari a blogger e rivoluzionari arrestati spesso soltanto per aver tenuto manifestazioni (pacifiche) ma non autorizzate. E di recente si è fatta più forte la pressione sulla stampa libera, mentre la televisione di stato ha ripreso il suo ruolo abituale di megafono del regime. Domenica sera, mentre i copti venivano massacrati da soldati e polizia militare davanti alla sede della televisione, i notiziari continuavano ad addossare la responsabilità dell’accaduto proprio alle vittime.
«Quanto è accaduto riflette il fallimento della transizione verso la democrazia», spiega l’analista Khalil Anani: «Se i militari rimarranno ancora a lungo al potere, il paese verrà travolto dalla violenza». La strage di domenica sera al Maspero, aggiunge Anani, «non è figlia del settarismo o di contrasti tra fedeli di religioni diverse. Piuttosto è la conseguenza dell’incapacità di risolvere le crisi e che potrebbe portare ancora tante volte all’uso della violenza contro persone inermi». Il Csfa non è in grado di fornire o non vuole dare risposte vere alle domande che pone la fase post-rivoluzionaria. Inclusa la richiesta dei copti, di uguaglianza fra tutti i cittadini e di fine delle discriminazioni. Richiesta legittima come le tante altre rivendicazioni portate otto mesi fa in piazza Tahrir – libertà , democrazia, giustizia sociale – da chi credeva (e ancora crede) in un nuovo Egitto.
Karima Kamal, una opinionista copta, afferma che il Csfa sta riproducendo il settarismo che aveva contraddistinto la politica dell’ex raìs. «Fanno le stesse cose che faceva Mubarak, non capisco per quale motivo si parli di un nuovo regime in Egitto», ha scritto Kamal. Altri copti ricordano come la «protezione» assicurata da Mubarak non aveva evitato stragi ed attentati contro i cristiani, come quello dell’ultimo Capodanno alla chiesa dei Santi Martiri di Alessandria (per il quale è stato addirittura ipotizzato un coivolgimento dei servizi di sicurezza).
I militari al potere non hanno cambiato le cose in questi otto mesi. A maggio 12 persone rimasero uccise nell’incendio doloso di una chiesa a Imbaba e i colpevoli non sono stati ancora indentificati. E non è stata emendata la legge sulla costruzione dei luoghi di culto cristiani, nonostante le assicurazioni del governo di Essam Sharaf (totalmente controllato dai generali del Csfa) che intenderebbe revocare le restrizioni risalenti ai tempi dell’Impero Ottomano, quando i cristiani dovevano ottenere un’autorizzazione per la costruzione, riparazione o restauro di una chiesa, al contrario di quanto accadeva per le moschee.
«Abbiamo raggiunto un bivio: o avremo una guerra civile, oppure le persone razionali saranno in grado di prendere in mano le redini e di portare il paese nella giusta direzione», ha previsto Karima Kamal. Mentre l’intellettuale Kamal Zaker teme che l’Egitto diventi un nuovo Iraq : «Se non verranno trovate soluzione idonee, la porta sarà aperta a tutto e l’Egitto potrebbe seguire lo stesso destino dell’Iraq».
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