Con i ribelli in festa a Bani Walid liberata “E ora a Sirte, ci aspetta l’ultima battaglia”

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BANI WALID – C’è voluto un aiuto eccezionale, per prendere la roccaforte gheddafiana ai confini del deserto, dopo sei settimane di assedio. I ribelli libici lo sanno bene, lo sa anche Mustafà  Abu Shagur, docente di Ingegneria prestato alla rivoluzione: «I carri armati dei lealisti? Non li abbiamo fermati noi. Li ha fermati Dio». È grazie a Dio che gli ultimi mercenari hanno abbandonato le torrette davanti ai twar, è grazie a Dio che sono fuggiti. E la gioia dei conquistatori si esprime nel Takbir, il grido «Allahu Akbar!», Dio è grande, che è insieme saluto, incoraggiamento, segno di riconoscimento e di fratellanza.
Nella piazza centrale di Bani Walid, coperta da un tappeto di bossoli, ragazzi di Slitan e di Misurata si abbracciano sul cassone di un camion, ballano, cantano: «Siamo i nipoti di Omar al Mukhtar». Sparano senza sosta con i kalashknikov, le mitraglie pesanti, persino con i cannoncini antiaerei. Sparano verso il cielo, vogliono segnalare al colonnello, che si sentiva tanto in alto da essere intoccabile, che stavolta è finita. Il suo tempo è contato. Bani Walid è caduta, la capitale dei potentissimi Warfalla è ridotta a un cumulo di case sfregiate dai proiettili e muri sventrati. Era stata affidata al figlio prediletto del rais, Saif al Islam, adesso è in mano agli adolescenti in ciabatte. «Stiamo già  ripartendo, ora andiamo a Sirte», dice scendendo da un pick-up crivellato di schegge Hisham Alhares, giovane berbero, fuggito a Bratislava per studiare. Sì, resta solo Sirte, poi per Muhammar Gheddafi, ovunque sia, gli unici covi rimasti saranno fra le dune, gli unici alleati saranno pochi tuareg, l’unica via d’uscita sarà  la fuga.
«La città  è sotto controllo, ma solo come può esserlo in questo momento». Stavolta niente toni trionfali: Mohamed Bashir, ex pilota militare poi emigrato in Ohio, oggi comandante di uno dei tre gruppi protagonisti dell’assedio, racconta con franchezza inusuale: «Sappiamo che ci sono ancora kataeb, militari lealisti, nascosti da qualche parte. Ne abbiamo catturato più di duecento, ma qualcuno ci è senz’altro sfuggito». Vedere i prigionieri, però, è impossibile: «Li abbiamo già  portati a Zawiyah», «No, sono a Gharyan». Alla fine, i miliziani che controllano il villaggio di Tininay, accanto a Bani Walid, spingono fuori quattro neri giovanissimi e terrorizzati. «Sono operai ciadiani, almeno loro dicono così», abbaia il comandante locale Munir Salem, quasi invitando i quattro a smentirlo. Bashir chiarisce: «I prigionieri vengono interrogati e poi smistati, li trattiamo secondo le regole». In più, chiarisce un alto ufficiale, con i tribunali ancora chiusi non ha senso trattenere quelli che comunque sarebbero “pesci piccoli”.
Bloccati i mercenari, Bani Walid resta vuota. I 70mila abitanti hanno abbandonato la città  e i villaggi intorno, magari per affrontare a piedi, nella notte, le colline desertiche e raggiungere un rifugio, anche sono nel letto di un fiumiciattolo. Avevano capito che non c’era altra scelta già  quando i gheddafiani avevano osato persino aprire il fuoco sugli anziani Warfalla che si erano offerti come mediatori fra loro e i ribelli del Consiglio nazionale di transizione. Ora le poche finestre non sprangate sono buie, le botteghe chiuse oppure sfondate dai twar per una “spesa” d’emergenza, le strade ricoperte di bossoli di ogni misura, compresi i giganteschi 106 millimetri grossi quanto un tubo di grondaia. Fra le case si aggirano solo poche capre e due solitari cammelli, persino l’aeroporto è abbandonato, con sei bimotori tinteggiati in colori mimetici utili solo per i ribelli più giovani come palcoscenico delle foto ricordo.
Se i suoi sono spariti, Gheddafi è lontano. Non fa più paura, persino le preoccupazioni espresse ieri a Tripoli da Hillary Clinton, sul pericolo di un ritorno del raìs, sembrano irreali dopo la vittoria. Il colonnello è rimasto nei graffiti di scherno, nei poster strappati, nei manifesti dati alle fiamme. E naturalmente nell’arazzo celebrativo che adesso si usa per pulire le scarpe, all’ingresso dell’ospedale. I medici si affannano su un twar ferito a un occhio, chiariscono che solo da pochi giorni hanno ripreso a lavorare. I combattenti in gravi condizioni sono stati portati a Gharyan, per gli altri non ci sono emergenze. Omar Fawzi, ventiduenne studente di Legge, ha una fascia insanguinata sulla testa: «Che cosa ho pensato quando sono stato ferito? Che stavo per morire, che sarei diventato un martire. Ma non sono stato abbastanza fortunato da essere uno shadid».


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