CON I RIBELLI DAVANTI AL CORPO “PICCHIATO E GIUSTIZIATO COSàŒ ABBIAMO PRESO IL RAàŒS”

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Misurata. Miliziani twar appena rientrati da Sirte si affacciano a turno, frenetici, gridando: Dio è grande. I quattro incaricati di sorvegliare il corpo spingono, tirano, concedono pochi secondi a ribelli e giornalisti e poi li mandano via: «Tutti devono vedere, Allahu Akbar, Allahu Akbar».
È l’ultimo scherno per Muammar Gheddafi, firmato dai nemici più accaniti, i guerrieri di Misurata: l’esibizione in quello che viene chiamato “mercato dei Tunisini”, come un animale macellato, come una bestia selvaggia e pericolosa, braccata e uccisa in una battuta di caccia senza regole. E i racconti della cattura e dell’esecuzione – perché questa sembra la parola più adatta – si intrecciano, smentendosi e confondendosi e lasciando zone d’ombra che forse nessuno vorrà  mai chiarire.
Non basterà  il racconto del corpo, l’autopsia che parla di decesso provocato da ferite alla testa e allo stomaco. Mahmoud Jibril, primo ministro ad interim, ha insistito per parlare con i medici. Ma già  giovedì aveva diffuso la sua verità : il colpo che ha ucciso il dittatore è stato sparato dai suoi stessi fedelissimi, in uno scontro dopo la cattura. Che fosse vivo, spaesato e persino incredulo quando è finito in mano ai twar, lo dimostrano diversi video, a partire da quello in cui grottescamente si rivolge ai ribelli gridando: «Che fate? Chi siete? Che volete?». O la sequenza che mostra schiaffi e pugni, con la Guida della Rivoluzione totalmente in balia della rabbia twar, coperto di sangue, che urla: «Peccato su di voi». C’è il primo video diffuso, che lo vede insanguinato ma in piedi, spinto sul cofano di un fuoristrada, mentre una voce grida: «Tenetelo vivo, tenetelo vivo». Poi un urlo di rabbia, l’inquadratura si perde, si sente una scarica. «Lo hanno catturato vivo, pestato e poi giustiziato», dice una anonima fonte del Consiglio nazionale di transizione all’agenzia Reuters.
Sul corpo esposto al “mercato dei Tunisini”, nella chioma scarmigliata che attirava il disprezzo dei libici si indovina un segno rosso: «Uno dei nostri, un ragazzo di sedici anni, gli ha strappato un ciuffo di capelli. Voleva controllare se erano veri. Ma no, erano finti, e anche colorati, ci hanno lasciato la traccia del nero nelle mani», racconta Adel Belghassim Rhouma, mostrando le dita ancora sporche di un colore bluastro. Poi mostra un video in cui si sente la chiamata per l’ambulanza, e giura: «L’ho visto mentre il medico lo curava, era vivo, non ho dubbi». E aggiunge un particolare inquietante: «Non so quando sia stato ucciso. Forse quando sono venuti a prenderlo, con l’elicottero. Era piccolo, blu, non so se sia dei rivoluzionari, o di chi altri».
Le ferite al tronco sembrano poco profonde, non è facile capire se il segno sanguinolento sotto l’ombelico sia davvero il buco di un proiettile, come dice il medico a cui il Cnt ha affidato l’autopsia. Le gambe sono coperte, non c’è traccia delle lesioni di cui si era parlato in un primo momento. Accanto al comando dei twar, fra manichini vestiti con la camicia di seta del dittatore e trofei militari, il giovane Mohamed Behlil racconta: «Ero accanto alla squadra che l’ha preso, ho visto i corpi delle sue guardie e del ministro della Difesa Abdelkader Yunis, proprio all’uscita di quel tubo. Gheddafi era ferito alle spalle e alle braccia, non aveva nulla alle gambe, camminava».
Fuori dagli Ospedali riuniti di specializzazione, Ali Mohamed, camionista prestato all’officina che prepara chiodi a quattro punte e arnesi di distruzione per i rivoluzionari, racconta di suo cugino, che ha un proiettile nel collo dopo lo scontro con il gruppo di gheddafiani nascosti nel canale. «Ora è in sala operatoria, è messo molto male. Anche un altro del gruppo è stato ferito gravemente. Ma prima del ricovero è riuscito a raccontarmi com’è andata: gli uomini del raìs hanno sparato su di loro, erano una quindicina, rifugiati in quei tubi».
Sullo scontro ha qualcosa da dire anche Muftà  Tahardi: «Siamo arrivati sul convoglio subito dopo gli aerei Nato. I topi scappavano, ma noi li abbiamo rincorsi». E quelli che si sono arresi, che sorte hanno avuto? «Nessuno si è arreso, continuavano a sparare e noi abbiamo risposto». Quanto ai gheddafiani trovati cadaveri con colpi alla nuca: «Sparavano e scappavano, qualcuno sarà  stato colpito mentre fuggiva. Questa è una guerra».
La ricostruzione è contraddittoria e frammentata: non è chiaro chi, quando e dove abbia sparato a Gheddafi, non è chiaro nemmeno se ci fosse l’ordine di ucciderlo, che il Cnt nega risolutamente. E l’idea che esista davvero un misterioso elicottero, comparso proprio durante gli ultimi minuti di vita del raìs, apre la porta su mille scenari, fatti di complotti e servizi segreti, a metà  strada fra i romanzi di Ken Follett e la paranoia. I nuovi potenti sembrano deciso a tagliar corto: i dettagli verranno dopo, a uccidere il dittatore è stato un proiettile vagante.
Dall’altra parte della città , nel quartiere Mar Bath, la gente di Misurata si mette in fila cantando «Allahu Akbar» per affacciarsi sulla porta di un container grigio e verde, in un deposito di materiali edili diventato magazzino dei rivoluzionari. Dentro il frigorifero c’è il corpo di Mutassim Gheddafi, esposto alla vista popolare, in attesa della sepoltura. Neanche sulla sua morte si sa qualcosa di definitivo. La tradizione islamica prevede che i morti siano interrati il prima possibile, ma per la famiglia del dittatore il vertice del Cnt ha deciso: si farà  un’eccezione. E uno dei motivi si capisce guardando il corpo del figlio di Gheddafi: sulla gamba sinistra manca come un cubetto di carne, la pelle giallastra rivela il prelievo di tessuti fatto subito dopo la morte di Mutassim, necessario all’esame del Dna. È l’unica certezza che gli uomini del Cnt pretendono: vogliono essere sicuri che sia davvero finita.


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