Chi ha vinto, chi ha perso e cosa succederà adesso
Sia in Israele sia nei Territori occupati l’accordo che ha portato alla liberazione del soldato israeliano Shalit e più di mille prigionieri palestinesi è stato accolto con euforia e sentimenti molto passionali. Il senso politico dell’accordo è meno emotivo e forse più interessante.
Più di 5 anni sono passati dal sequestro (o cattura) del soldato israeliano. Ad eccezione di un messaggio registrato, per tutto questo tempo non si è saputo nulla di lui, non sono stati permessi i benché minimi contatti. Con gli anni Shalit si è convertito in un mito e l’esigenza di liberarlo è diventata pressante in Israele. Il governo, prima di Olmert e ora di Netanyhau, non ha visto alcuna possibilità realistica di un’azione militare, neppure durante l’Operazione Piombo fuso contro i palestinesi di Gaza. Hamas esigeva la liberazione di più di 1000 prigionieri e presentava una lista che poneva forti problemi agli israeliani.
Il prezzo della liberazione? Parte della leadership palestinese nelle prigioni israeliane e molti terroristi responsabili della morte di centinaia di civili in attacchi su bus, pizzerie, ristoranti…
Questo spiega perché non solo la destra israeliana si opponeva all’accordo ma anche molte famiglie delle vittime, contrarie alla liberazione degli assassini dei loro familiari. Alla vigilia della liberazione un ragazzo ha attaccato il memorial di Rabin a Tel Aviv. Troppo facile vederlo come un semplice fascista grazie alle sue dichiarazioni alla radio: quando ha spiegato che nell’attacco alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme ha perso i suoi genitori e tre fratelli, il quadro si è fatto più complesso.
Non pochi dei prigionieri liberati avevano un record di decine di vittime e hanno ribadito di non provare il minimo rimorso e che se necessario lo avrebbero fatto di nuovo.
Cosa ha portato Hamas ad accettare alcune delle concessioni che hanno condotto all’accordo?
La sua leadership politica, a Damasco, era un ostacolo serio ai negoziati. Però la situazione in Siria li costringe a cercare un altro paese. L’Egitto è un candidato naturale. L’appoggio finanziario dell’Iran si è interrotto negli ultimi mesi – per via delle crisi in Egitto e Siria – e a Gaza crescevano le voci che ritenevano necessario un accordo, mentre il regime post-Mubarak del Cairo sta cercando qualche tipo di intesa con i Fratelli musulmani.
Per l’Egitto riprendere un ruolo centrale sul teatro arabo è vitale, i suoi problemi economici sono enormi e la nuova leadership per ora non è riuscita a stabilizzare la situazione, ragione per cui l’esercito deve mantenere saldo nelle sue mani il controllo dell’economia e della politica. Mentre la campagna internazionale di Abu Mazen per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu registrava un grosso successo e la popolarità dell’Olp aumentava, Hamas si ritrovava davanti problemi seri che la mancanza di appoggi economici non faceva che aggravare. Quindi era chiaro che Egitto e Hamas potevano confluire nella direzione di un accordo.
Accettando di flessibilizzare le sue condizioni Hamas ha reso più facile al governo egiziano raggiungere tre obiettivi: il Cairo è di nuovo un fattore centrale sia sul teatro arabo sia per gli accordi con gli israeliani e Hamas gli consente un avvicinamento ai settori islamisti interni.
Un palestinese che stava celebrando il ritorno dei detenuti a Gaza spiegava alla tv israeliana l’essenza del successo di Hamas: Abu Mazen va in giro per il mondo e non è in grado di liberare un solo prigioniero palestinese; Hamas è riuscito a liberarne più di mille con il sequestro-cattura di un solo soldato. In altre parole, il dibattito sulla via da seguire è in corso e si farà santire prossimamente sui rapporti di forza interni ai palestinesi.
Netanyahu si è aggiudicato una vittoria di cui aveva un gran bisogno dentro il paese, in quanto essa farà dimenticare – almeno per un po’ – le proteste sociali e la paralisi dei negoziati con i palestinesi. I pessimisti temono che l’improvvisa popolarità del premier gli consentirà di sferrare un attacco militare all’Iran e questo – un progetto demenziale che metterebbe a rischio il futuro stesso di Israele – sarebbe possibile con il via libera Usa.
Però è possibile anche una versione più ottimista. In Israele si sta levando qualche voce a sostegno della logica dell’accordo che ha portato alla liberazione di Shalit: volente o nolente Netanyahu ha negoziato, sia pure in forma indiretta, con Hamas ed è arrivato il tempo di capire che il movimento isalmico può essere un partner per negoziati più generali.
Se l’Egitto riprenderà i suoi tentativi di arrivare a una riunificazione palestinese che vada al di là dell’accordo Hamas-Olp di qualche mese fa (per ora rimasto sulla carta), sarà più difficile per Israele rifiutare i negoziati «perché includono i terroristi di Hamas». Martedì è stato Ahmad J’abri, il capo dell’ala militare di Hamas a Gaza, ad accompagnare di persona Gilad Shalit e consegnarlo nelle mani degli egiziani.
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