Caso Uva, la sorella contro il pm: non ha indagato

by Sergio Segio | 16 Ottobre 2011 6:27

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MILANO – Da quella «maledetta notte», Lucia Uva aspetta ancora la verità . «Sono passati tre anni e quattro mesi e finora la procura non ha fatto nulla per spiegare cos’è successo a Giuseppe nella caserma dei carabinieri di Varese», scrive nella sua lettera aperta. Era il 14 giugno 2008, e solo oggi, tre anni e quattro mesi dopo, i parenti di Giuseppe Uva, morto a 43 anni in ospedale dopo essere rimasto tre ore in caserma, vedono uno spiraglio di luce.
Le pagine della consulenza dei periti del Tribunale mettono in discussione l’impianto accusatorio del pm Agostino Abate che ha mandato a processo per omicidio colposo lo psichiatra Carlo Fraticelli, il medico che avrebbe somministrato i farmaci a Uva. Per i periti, invece, l’artigiano è sì morto per «aritmia cardiaca» ma le concentrazioni di medicinale sarebbero «inidonee a causare il decesso». E solo la riesumazione potrà  dire se i traumi sul corpo possono essere collegati alla notte in caserma, e alle botte denunciate dall’unico testimone.
Sono le 2.55 quando Giuseppe e il suo amico Alberto Biggiogero vagano per il centro di Varese. Sono ubriachi. Si divertono a mettere transenne di traverso per strada. Arriva una gazzella dei carabinieri e i due finiscono nella caserma di via Saffi. Alberto racconta di «un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Piangevo e urlavo di smetterla di massacrare Giuseppe. Udivo ugualmente le sue urla incessanti per circa un’ora e mezzo ancora».
«In tre anni e quattro mesi, un’inchiesta a dir poco bizzarra è stata capace di non ascoltare mai l’unico testimone oculare, che il giorno dopo presentò un dettagliatissimo esposto» accusa Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”, che ha denunciato anche i casi Aldrovandi e Cucchi. Proprio nella perizia si parla di «tracce di natura ematica sui pantaloni», un «indizio – ha sempre sostenuto Fabio Anselmo, il legale della famiglia Uva – che indica chiaramente un’emorragia derivante da traumi, estesa sui pantaloni dieci centimetri per sedici». «Mi dissero che era pomodoro» dice oggi, amaramente, Lucia Uva.
Se il tribunale deciderà  per la riesumazione del corpo di “Pino”, alcuni quesiti medici potrebbero trovare risposta. I periti ritengono «imprescindibili» una nuova autopsia, una tac per individuare eventuali traumi in grado di provocare l’aritmia, l’analisi biologica sui jeans Rams insanguinati «tra il cavallo e la zona anale» e su «altri vestiti eventualmente reperibili», un accertamento farmaco-genetico alla ricerca di eventuali allergie.
Altri punti oscuri potranno essere chiariti dalle indagini della procura. Perché il ricovero arriva così in ritardo rispetto al fermo? Chi fa sparire gli slip della vittima, arrivato di fronte all’anatomopatologo solo con «un pannolone e una maglietta bianca»? Cosa indicano le scarpe «visibilmente consumate» nella parte anteriore, mette a verbale il poliziotto in servizio quella notte in ospedale, come se ci fosse stata «un’estenuante difesa a oltranza dell’uomo»?

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