BLOG E RIVOLUZIONE

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«Molti, in Occidente, hanno voluto leggere gli avvenimenti egiziani come un prodotto di facebook, ma la radice della rivoluzione, il suo punto centrale, è costituito dai lavoratori», dice al manifesto il blogger egiziano Hossam el-Hamalawy. Scrittore, giornalista, militante del Partito socialista rivoluzionario, Hossam ha ricevuto a Ferrara il premio giornalistico «Anna Politkovskaya» e oggi alle 19 sarà  a Roma al Centro sociale Ex-Snia.
Qual è la sua lettura degli avvenimenti egiziani?
Gli scioperi sono stati e sono il filo rosso da cui dipende il futuro della rivoluzione. Mentre parliamo, ne è in corso uno del trasporto pubblico, un altro dei docenti universitari, nelle scorse tre settimane oltre 500 mila egiziani si sono astenuti dal lavoro. Dal 2006, l’Egitto è stato attraversato dal più lungo e consistente sciopero mai avvenuto dal ’46. Nel dicembre 2006, quello di Mahalla – il più grande complesso industriale tessile di tutto il Medioriente, situato sul delta del Nilo – ha mostrato il primo grande segnale di risveglio della lotta di classe dopo vent’anni di immobilismo: dovuti alla repressione del regime e all’applicazione di una serie di riforme neoliberiste messe in campo dal governo con il beneplacido del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Gli scioperi sono stati il vero fischio d’inizio per liberarci di Mubarak. I lavoratori erano presenti fin da subito, anche se non portavano le bandiere delle loro organizzazioni. E non hanno accettato di tornare a casa. Ora bisogna costruire un nuovo modello di democrazia dal basso che cacci via i tanti piccoli Mubarak che ancora si annidano nelle istituzioni pubbliche.
Quanto è condiviso il suo pensiero nel cyberspazio arabo e nella società  egiziana?
In Egitto e nel mondo arabo, la blogosfera è molto ampia. Nel dicembre del 2004, in Egitto c’erano solo 30 blog personali, nel 2008 secondo uno studio del governo, ce n’erano 168 mila, l’anno dopo Human Rights Watch diceva che se ne contavano 250 mila: vi si riscontrano tutti i punti di vista, da quelli che sono favorevoli a un governo islamico, a quelli che non escono di casa, ad altri che invece hanno un piede nella strada e uno nella blogosfera. Io rappresento una tendenza della sinistra radicale di base, condivisa da molti, anche se certa stampa occidentale parla solo di islam e di blogger modello Fmi. Ho cominciato a far politica nella seconda metà  degli anni ’90, nel ’98 sono entrato nel Partito socialista rivoluzionario, la mia generazione ha rivitalizzato la sinistra con le proteste nei campus universitari del 2000, in appoggio alla Palestina. Gridavamo: «La strada per Gerusalemme passa per il Cairo». Il processo che ci ha portato al 2011 è cominciato nel 2000, anche perché le organizzazioni islamiche erano giunte a un punto morto. I rivoluzionari di oggi vogliono la stessa cosa di quelli nel ’17 in Unione sovietica o nel ’20 a Torino, nella Spagna del ’36 o nell’Ungheria del ’56. L’essenza è la stessa, cambia la tattica e il programma, ma in ballo resta il controllo dei mezzi di produzione.
Nell’ottobre del 2000 lei è stato arrestato e torturato.
Durante le manifestazioni per la Palestina avevo gridato frasi contro Mubarak. Frequentavo l’università  americana al Cairo, che si affaccia su piazza Tahrir. Nei campus eravamo controllati a vista dai paramilitari della Central security, dipendenti dal ministero degli interni, contro cui abbiamo combattuto in questa rivoluzione. Avevamo organizzato manifestazioni simultanee. Mi sono arrampicato sul tetto, ho tolto la bandiera Usa che da allora non è mai più stata rimessa. Il giorno dopo, due macchine mi tagliano la strada, alcuni uomini mi afferrano, mi coprono gli occhi con la mia kefia e mi sbattono sul sedile di dietro, bendato e con le mani legate. Mi portano nel quartier generale della sicurezza dello stato, al Cairo, dove sono stato torturato per 4 giorni. Non ho ceduto. Il quarto giorno mi mettono in una cella piccolissima e mi tolgono le bende. Vedo altri 18 prigionieri. Penso siano della Jihad islamica, invece erano familiari di sospetti militanti islamici. Allora era in atto una “guerra sporca” da parte del governo contro gli insorti islamici, come quella condotta in America latina. Tutta la società  ha pagato un prezzo. Le manifestazioni sono state proibite. Sono state costruite 10 nuove prigioni, inclusa la famosa Scorpion nella quale sono state detenute 40 mila persone, senza processo. Sono stato liberato grazie alla solidarietà  all’esterno. Sono stato arrestato altre 2 volte, nel 2002 e 2003.
Quale partita si giocherà  con le elezioni del prossimo 28 novembre?
Quando abbiamo cacciato Mubarak, avremmo dovuto avere un’autorità  civile entro sei mesi, e le elezioni a settembre, poi spostate a novembre. La transizione è un circo controllato dall’esercito, da quegli stessi personaggi che hanno agito sotto Mubarak e che ora brigano per avere un governo civile, ma senza toccare i privilegi di esercito e imprenditori, suoi alleati. Il nostro esercito riceve fior di finanziamenti dagli Usa, ne è il suo più grande alleato dopo Israele. Controlla dal 25 al 40% dell’economia, produce sia armi che utensili. Contina a essere l’istituzione che comanda davvero in Egitto, com’è stato dal ’52. Le elezioni saranno controllate dagli stessi registi che hanno truccato le precedenti. Attivisti sinceri spingono comunque per le elezioni, credendo che se l’esercito tornerà  nelle caserme sarà  comunque positivo. Ma non è un problema di visibilità  dell’uniforme o meno.Noi e altre forze di sinistra invitiamo a boicottare le elezioni, preferendo concentrare le energie nelle lotte di massa e nella costruzione di nuovi modelli di democrazia dal basso. Ma abbiamo bisogno della vostra solidarietà  in Europa. Per costruire un nuovo autunno caldo contro il nemico comune.

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E se non ci fosse stato il web?

 Hossam el Hamalawy firma l’introduzione al volume «I diari della rivoluzione», edito da Fandango libri. Un racconto a più voci scritto da blogger, attivisti e giornalisti protagonisti delle rivolte che hanno portato alla caduta dell’83enne presidente Hosni Mubarak, al potere da quasi trent’anni. Si può parlare di «Facebook revolutions» a proposito dell’Egitto e della Tunisia? Le rivolte sarebbero avvenute senza i blogger e senza internet che le ha progagate? Hossam el Hamalawy ne discuterà  oggi a Roma alle 19 al Centro sociale Ex-Snia, mentre Sara El Sirgany, una delle autrici, ne parlerà  domani alle 19 a Fandango incontro (in Via dei Prefetti 22).


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