by Sergio Segio | 4 Ottobre 2011 6:45
ROMA – «Ci sono dirigenti che azzoppano il partito, invece di valorizzare il lavoro fatto: il Pd non è un optional e io non sono il segretario di un optional…». Bersani ce l’ha con Arturo Parisi. Il professore prodiano – promotore del referendum-miracolo (un milione e duecentomila firme raccolte in poche settimane) – e il segretario incrociano le spade. Ma la direzione del Pd di ieri è attraversata da mille tensioni. Si duella su tutto. E soprattutto sul da farsi, ovvero qual è la linea dei Democratici mentre il berlusconismo agonizza e la Lega si massacra da sé: prepararsi al voto o puntare su un governo di transizione? Bersani esordisce: «Il nostro orizzonte sono le elezioni ma non ci sottraiamo a un governo d’emergenza». Troppo poco, troppo ambiguo. Così la pensa Walter Veltroni, il leader della minoranza, che va all’attacco: «Serve una proposta politica chiara e inequivocabile: l’orizzonte in cui si muove il Pd non è – come pure qualcuno ha sintetizzato – quello delle elezioni, bensì quello del superamento del governo Berlusconi con un governo davvero responsabile». Uno scontro in piena regola tra Veltroni e Bersani.
L’ex segretario tuttavia fa notare che non è il solo a indicare la via maestra nel governo di responsabilità , insistendo perché voto e esecutivo di transizione non siano messi sullo stesso piano. Allo stesso modo la pensano il capogruppo Dario Franceschini, Beppe Fioroni, Franco Marini, Paolo Gentiloni e pure il vice segretario Enrico Letta. Bersani cerca di mediare, alla fine: «Noi ci stiamo attrezzando a entrambi gli scenari, sia elezioni che governo di emergenza, però non tutto è nelle nostre mani». Tuttavia, sottolinea, il Pd deve rendersi disponibile al governo di transizione ma «il nostro progetto non è quello, se no ci finiremmo sotto come un camion».
Lo scontro resta. E anche i sospetti che, dietro l’insistenza sulla strada lunga di un esecutivo di transizione per il bene del paese, ci sia il “nodo” della premiership. «Questo è stato il convitato di pietra della riunione – commenta Pippo Civati – Ma se così fosse, se Bersani non va bene, allora bisogna trovare il modo di dircelo». Su elezioni subito insiste il dalemiano Nicola Latorre. D’Alema nell’assemblea del “parlamentino” non c’è – è a Bruxelles – e fa sapere di volere restare fuori dagli scontri. Latorre precisa: «Che servano elezioni è la mia opinione, quella di D’Alema è molto diversa».
Massima è la tensione sul referendum. È Parisi-show: il professore denuncia il «metodo bulgaro» che vige nel Pd, «l’errore di valutazione politica e la linea radicalmente sbagliata» e ora, «la rivendicazione scomposta dei meriti». Le agenzie di stampa riportano come passaggio della relazione di Parisi la richiesta di dimissioni del segretario, ma lui smentisce: «Le mie frasi sono state fraintese». Il mancato esplicito sostegno al referendum è criticato anche da Areadem, la corrente di Franceschini, dai veltroniani, da Ignazio Marino e dalla sua area. Duello anche sulla Bce tra Fassina, responsabile economico del partito, e il vice segretario Letta. Fassina critica la ricetta «iniqua e irrealistica» della Bce; Letta rimbrotta: «Non si può essere europeisti a intermittenza». Bersani infine: «No alla critica alla Bce, ma la lettera con un altro governo non ci sarebbe stata». Divisioni sulle primarie del Lazio e le alleanze in Sicilia. Ci sarà un referendum della base sulla futura alleanza con Lombardo. E dopo sette ore di discussione Bersani appare provato.
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