by Sergio Segio | 4 Ottobre 2011 6:27
PERUGIA — Era davvero un viso d’angelo, quello di Amanda Marie Knox: non nascondeva niente, non era in grado di ingannare e ancora meno di uccidere e violentare. Semplicemente, il suo, è il volto di una ragazza poco più che ventenne: pulito, sincero. Innocente. Ci sono voluti quattro anni per stabilirlo, ma evidentemente la giustizia italiana dimostra — a se stessa, agli Stati Uniti, al mondo — di saper riparare agli errori commessi. Sono le 21.47 quando il presidente della Corte Claudio Pratillo Hellmann, legge la sentenza e assolve «per non aver commesso il fatto» Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Condanna lei alla pena di tre anni per la calunnia nei confronti di Patrick Lumumba. E assolve tutti e due anche per il reato di simulazione perché «il fatto non sussiste».
Amanda piange e abbraccia gli avvocati Maria Del Grosso, Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova. Anche Raffaele Sollecito abbraccia Giulia Bongiorno e balbetta ringraziamenti.
Fuori, in una piazza Matteotti stracolma, la gente contesta, ulula, a più riprese urla «vergogna, vergogna». L’avvocato Luciano Ghirga è raggiante: «Forse ancora non me ne rendo conto ma credo di aver vinto il processo più importante della mia vita». Poco dopo arriva la nota del Dipartimento di Stato americano. La portavoce Victoria Nuland scrive: «Gli Stati uniti apprezzano l’attenta considerazione della vicenda nell’ambito del sistema giudiziario italiano».
Sia le difese sia l’accusa sono pronti a ricorrere in Cassazione: contro la condanna per calunnia le prime e contro questa sentenza i magistrati.
Escono dal tribunale anche Arline e Stefanie Kercher, madre e sorella di Meredith. Sono visibilmente stanche e deluse. Ancora pochi minuti e il Palazzo di giustizia si svuoterà , l’attenzione si sposterà sul carcere di Capanne, a Perugia, da dove Amanda esce alle 23.15. Raffaele poco dopo, dal penitenziario di Terni. Liberi.
Forse, per spiegare questa sentenza, bisogna partire dalle parole usate dal giudice a latere Massimo Zanetti nella relazione iniziale: «L’unico fatto certo e incontestato è la morte di Meredith Kercher». Ecco, il processo d’appello rimane fedele a questa impostazione: dibattimento riaperto e, soprattutto, concessione delle perizie scientifiche chieste per anni dalle difese. Ed è quello, il parere degli esperti di dna nominati dalla corte, il vero colpo di scena di queste venti udienze: Carla Vecchiotti e Stefano Conti arrivano in aula in estate e demoliscono punto per punto il risultato ottenuto dalla Scientifica e ritenuto valido, e decisivo, in primo grado. Per loro, e ora evidentemente anche per la Corte, il gancetto del reggiseno che inchiodava Raffaele Sollecito alla scena del crimine può essere frutto di contaminazione. Raccolto sul pavimento di via della Pergola quarantasei giorni dopo l’omicidio: passato di mano in mano con guanti che, invece di essere bianchi avevano, in un filmato mostrato dai periti, un segno nero. Il coltello, ormai ex arma del delitto, che per dirla con l’avvocato Bongiorno «fu trovato alla velocità dei neutrini», per i due esperti incaricati dalla Corte ha sì la firma genetica di Amanda sul manico, ma non c’è certezza di trovare quella di Meredith sulla lama. In sintesi: quasi quattro anni dopo la morte di Meredith, le prove scientifiche sono da cestinare. È in quel momento esatto che il processo cambia direzione: tolta la chiave di volta del dna, l’impianto accusatorio frana. Lo scontro tra le parti si fa durissimo. Per le difese la strada è in discesa: «Sgretolata l’unica prova contro Raffaele», dice Giulia Bongiorno. «L’accusa non ha più niente, solo suggestioni», commenta Ghirga: nel suo intervento finale è durissimo con l’accusa, responsabile di una «ricostruzione lombrosiana» di Amanda, e di aver «alzato i toni per distrarre la Corte dal merito». Evidentemente, la Corte gli crede. E di certo valuta inattendibili i testimoni, tra i quali il clochard Antonio Curatolo, eroinomane, che giurava di aver visto i due ragazzi la sera dell’omicidio a pochi passi da via della Pergola. Invece, quei due, la sera del primo novembre 2007 erano in casa, a far l’amore. Forse per questo — «per scambiarsi coccole e tenerezze», come in aula racconta Raffaele — spengono i cellulari e non usano il computer. Chissà . Di certo ora sono liberi, Amanda e Raffaele. Fuori dal carcere, e da un incubo lungo 1.448 giorni.
Alessandro Capponi
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