Aldo Capitini ritrovato nella calma sfinita dell’oggi

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Etiamsi omnes… ego non, «Se anche tutti… io no». Questa formula evangelica (Matteo 26, 33) definisce l’atteggiamento di chi non intende far parte di un gregge disciplinato ma vuole seguire la verità  con fede e coscienza. Purtroppo queste parole furono pronunciate per la prima volta da quel Simon Pietro che di lì a poco si sarebbe triplicemente smentito, e se non fosse stato per il gallo, forse, avrebbe continuato imperterrito a rinnegare e a scandalizzarsi. Questo per dire che gli slogan sono importanti ma non bastano a forgiare il martire. Pietro dovrà  piangere amare lacrime sul proprio inciampo, prima di mostrarsi all’altezza dei proponimenti che avventatamente aveva dichiarato.
Con queste stesse parole si apre un bel libretto di Valter Binaghi e Giulio Mozzi, Dieci buoni motivi per essere cattolici, Laurana 2011, euro 11.90, con una densa e appassionata introduzione di Tulio Avoledo, dove appunto con passione è riportata questa massima come linea guida per una buona condotta cristiana. Sì perché, innanzitutto, questa formula è un modo che i cristiani adottano per manifestare e difendere la propria differenza specifica, il proprio perseguire un regno che «non è di questo mondo» (Giovanni 18, 36). Facendo leva su tale differenza, la teologia del Novecento ha messo in discussione la stessa condizione del cristianesimo come «religione».
Soprattutto in epoca recente, quando si aprono i supermarket delle religioni, quando yoga e medicina ayurvedica si mescolano all’aromaterapia e alle sentenze morali dei cioccolatini, la teologia cristiana deve spesso spingersi al di là  delle tendenze religiose ed esprimere dissenso e distanza. Tuttavia, questa linea, per dir così, intellettuale della teologia, non fu quella della prassi. Le chiese si sono diffuse in masse indifferenziate di consumatori. La tensione escatologica dei teologi non fu mai realmente recepita dalle folle: da sempre nelle scritture la massa è associata al tradimento, dal vitello d’oro (Esodo 32, 1-6) al crucifige (Matteo 27, 15-25). Dovrebbero pensarci le chiassose comitive dei papa boys, con le loro liturgie eucaristiche rockettare. In ogni caso, questa spaccatura tra cristianesimo escatologico e religione tappabuchi caratterizza quelli che potrebbero essere considerati i «segni dei tempi» di questi ultimi anni.
A risollevare le sorti della «religione» ci ha pensato, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Aldo Capitini, con la sua Religione aperta, che Laterza ha coraggiosamente ripubblicato da poco (euro 20, prima edizione Guanda 1955). La religione in Capitini non è un odd-job word, una parola tuttofare, come lamentano i cristiani intransigenti, da Thomas Browne – che nel 1643 affermava: «Il termine Cristiano è divenuto troppo generico per esprimere la nostra fede» – a Dietrich Bonhoeffer, che tre secoli dopo dalle carceri naziste oppose da martire la verità  della fede alla mistificazione del conformismo. Non è nemmeno l’indottrinamento o il flatus vocis dell’ora scolastica settimanale. E neppure la «buona creanza» che sottende il detto Non c’è più religione, assunto a titolo di un libro prezioso del compianto Michele Ranchetti (Garzanti 2003). Capitini dà  un taglio netto a questi usi e abusi di un termine malconcio: la parola «religione» diviene un insieme di atti che servono a preparare qualcosa di totalmente nuovo e che Capitini chiama apertura: «Ciò che conta non è di avere sempre la religione, ma che venga una realtà  liberata che comprenda tutti».
Figlio dell’antifascismo, segnato da Croce e da Gandhi, dal modernismo e dai preti operai, da Danilo Dolci e da don Mazzolari, Capitini insiste sulla novità  della «buona notizia»: sono i nuovi cieli e la nuova terra che vanno inseguiti e attesi. Nondimeno quella della novità  non era un’ossessione per Capitini, come lo fu invece per Ferdinando Tartaglia; il nuovo, piuttosto, o le cose ultime, come direbbe la teologia, va preparato attraverso il presente, l’ora mortale, le cose penultime.
Capitini è testimone e attore di un tempo convulso, oggi forse poco comprensibile. Nella prefazione a questa riedizione Goffredo Fofi mette in evidenza come la disobbedienza civile, di cui Capitini fu maestro e pioniere in Italia, assieme alla nonviolenza (senza trattini), sia quanto di più distante dalle pratiche odierne di opposizione. La ragione di tale lacuna sta nel fatto che i nostri non sono più tempi convulsi: sono tempi di bonaccia, storditi dalla cattiva digestione di un benessere eccessivo; tempi intontiti dai postumi di una crisi infinita, abbacinati da un’economia sforacchiata e da una politica in putrefazione. Mentre per la nonviolenza ci vuole carne fresca. Perciò questa nuova comparsa di Capitini suona come una sveglia, inattuale e benvenuta, che ci mette davanti la questione religiosa come urgenza di contrasto, come spinta incontenibile e gioiosa (non rancorosa, né tanto meno depressa) alla rivoluzione. Sì, proprio alla rivoluzione. Religione aperta si chiude proprio lamentando come segno di decadenza il fatto che i potenti temano di più i rivoluzionari che i religiosi.
Libro bizzarro e molteplice, Religione aperta, che si apre come una confessione e si chiude come un manifesto rivoluzionario. A metà  strada tra il trattato filosofico e il pamphlet, parco di riferimenti bibliografici, stilisticamente impreziosito da una prosa magnifica, Religione aperta scopre un’infinità  di questioni, di cui qui possiamo soltanto sfiorare qualche traccia. Il tema del peccato mi par essere tra i più interessanti. Forse perché parlare oggi di peccato è quasi uno scandalo. Per Capitini peccato è fermarsi al mondo così com’è. Peccato è il realismo accidioso e melanconico. Peccato è la passione triste di chi si accontenta. Mentre la religione tende a fondare un mondo privo di male, una realtà  liberata, «un mattino».
Nel confronto serrato con le figure della religione, vecchie e nuove, Capitini incontra Francesco, il frate minore, e vi si specchia. Incontra le creature amate e cantate dal santo di Assisi: ripercorre le tappe del pacifismo radicale, del vegetarianismo che non è per nulla una scelta alimentare, ma è una dieta nel senso etimologico del termine, ossia una forma di vita, una conversione totale verso la cura per il vivente. Rispetto a Francesco e alla sua epoca, Capitini insiste sull’urgenza tutta moderna del contrasto, della polemica, dell’opposizione netta: in tal senso «religione» non significa per nulla una forma di convinzione, ma significa far sì che anche la zizzania si riveli frumento genuino e buono (Matteo 13, 28-29): l’inferno esiste, nella religione aperta, ma è vuoto.
Questa l’utopia di Capitini, questa la sfida che il discorso religioso lancia alla postmodernità  smarrita, confessionale o laica che sia. Religione non è un posizionamento intellettuale o concettuale, ma è slancio vitale, adesione, un sì profondo e duraturo che si oppone pacificamente e gioiosamente a tutti i no del tardo e monocolore e monotono capitalismo globale.


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