Acqua, clima o informazione le ultime sfide della politica

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Cosa hanno in comune l’acqua potabile, una foresta, una piazza, con la salute dei cittadini o i flussi di conoscenza che scorrono nella rete? La risposta, contenuta nella stessa domanda, è che in tutti casi si tratta di “beni comuni” – vale a dire non appropriabili né da privati né dallo Stato. Naturalmente ciò accade per motivi diversi. L’acqua non può essere privatizzata perché, come l’aria, è condizione essenziale del diritto alla vita; la piazza perché costituisce luogo di incontro e di socializzazione per chiunque in qual momento vi sosti; l’informazione perché è strumento irrinunciabile di sviluppo dell’intero genere umano.
È paradossale che un’evidenza così lampante solo da qualche anno concentri l’attenzione di un numero crescente di giuristi, filosofi, antropologi, fino a diventare oggetto di un vero e proprio manifesto, come quello appena pubblicato da Ugo Mattei con il titolo Beni comuni. Un manifesto (Laterza, pagg. 136, euro 12). Docente di diritto civile, egli è stato vicepresidente della Commissione Rodotà  per la Riforma dei beni pubblici, nonché redattore, insieme ad altri giuristi, dei recenti quesiti referendari sull’acqua.
Ma anche al di là  dei diversi libri che l’hanno posta a tema, si può dire che la questione dei beni comuni sia letteralmente esplosa in tutto il mondo. Oggetto di studio di qualificati gruppi di ricerca, nel 2009 è stata occasione di conferimento del Nobel all’economista statunitense Elinor Ostrom, autore di un saggio, Governing the Commons, ad essa dedicato. Al centro della battaglia per la difesa della terra nel Chiapas e in Brasile e di quella, anch’essa vincente, per l’acqua pubblica a Parigi, è diventata la punta di diamante della campagna elettorale di De Magistris a Napoli, che, appena eletto sindaco, ha affidato il primo assessorato ai beni comuni al costituzionalista Alberto Lucarelli. Tutte le manifestazioni che hanno accompagnato i vertici dei Grandi della Terra sull’economia e sul clima – da Seattle a Cancun – hanno rilanciato, con sempre maggior forza, il motivo del “comune”. “Il lavoro è un bene comune” è stato lo slogan di una recente protesta sindacale in Italia. E cos’altro chiedono gli indignados ad Atene, Tel Aviv, Madrid e New York se non il rispetto di beni non disponibili, neanche per diminuire il debito sovrano dei vari Paesi?
E tuttavia la partita appare tutt’altro che facile. Per quanto diffusa a macchia d’olio per una sorta di contagio generazionale – proprio la salvaguardia delle future generazioni costituisce l’obiettivo dichiarato della Commissione Rodotà  –, l’opzione per i beni comuni sconta una doppia difficoltà  di partenza. Intanto la diffidenza delle forze politiche nei confronti di un lessico trasversale, difficilmente riconducibile alla tradizionale dicotomia destra/sinistra. E poi il peso incombente di una lunga tradizione giuridica, coincidente in buona sostanza con la storia dell’intera modernità . La quale si è affermata appunto spazzando via le risorse – boschi, torrenti, università , città , chiese – che nel mondo medioevale sfuggivano alla proprietà  privata e a quella statale, costituendo una sorta di beni rifugio per i più deboli. Le recinzioni dei campi in Inghilterra, insieme al saccheggio delle Americhe, segnano la fine di diritti consuetudinari, come quello che destinava le foreste al libero uso dei poveri. È allora che si salda la tenaglia tra proprietà  privata e sovranità  statale, teorizzata e celebrata da tutta la filosofia politica moderna. Come il singolo ha diritto esclusivo di proprietà  su tutto ciò che produce, così lo Stato sovrano è proprietario unico del territorio incluso nei propri confini.
Da Hobbes a Locke, a Blackstone, Stato e proprietà  colonizzano l’intero immaginario in un rapporto a somma zero che non lascia spazio a qualcosa che è di tutti proprio perché non appartiene a nessuno. Nonostante la loro opposizione, liberalismo e socialismo condividono la stessa logica escludente che divide il mondo tra beni privati e beni posseduti dallo Stato. Ciò che solamente è consentito, e giuridicamente tutelato, è il passaggio dalla proprietà  dello Stato e quella dei privati e viceversa. Nazionalizzazione e privatizzazione diventano le parole d’ordine che nel Novecento si dividono tutto il campo delle opzioni economiche e politiche, espellendo qualsiasi altra possibilità .
La globalizzazione dell’ultimo ventennio da un lato spinge ancora più avanti questo processo, dall’altro comincia a porlo in contraddizione con se stesso. L’entrata in scena di nuovi soggetti proprietari, costituiti da grandi multinazionali slegate da qualsiasi obbligo di responsabilità  sociale – come la Fiat di Marchionne – riduce il potere sovrano degli Stati, allargando a dismisura quello di organizzazioni private capaci di produrre esse stesse politica e diritto funzionali ai propri vantaggi. Così – come sostiene Mattei – Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio diventano i veri legislatori globali del dopo Guerra Fredda. Ma proprio questa rottura della dicotomia moderna tra Stato e singoli proprietari apre lo spazio a nuovi scenari, in cui comunità  reali di cittadini associati rivendicano l’estensione dei diritti fondamentali e comunità  virtuali penetrano i confini statali arrivando a diffondere informazioni riservate, come nel caso di WikiLeaks.
Qual è il destino di questo nuovo antagonismo sociale, così diverso da quello cui il Novecento ci ha abituati? Io credo che se esso si pone come alternativa globale al modello capitalistico, richiamandosi ad esperienze marginali come quelle dell’Ecuador o della Bolivia – come sembra fare lo stesso Mattei – esso non ha speranze. Come, del resto, tutti i discorsi in voga sulla decrescita. Non ha speranze perché troppo in contrasto con le aspettative, le pulsioni, i desideri della stragrande maggioranza della gente, non soltanto in Occidente. Se invece, senza rinunciare al conflitto politico e civile, punta alla costruzione di un sistema costituzionale triangolare in cui i beni comuni guadagnino progressivamente spazio tra quelli pubblici e privati, a partire da singole battaglie come quelle sull’acqua, sul nucleare, sulla difesa del lavoro, può diventare la nuova piattaforma unitaria di movimenti orientati alla trasformazione di un mondo che appare sempre meno nostro.


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