1027 contro uno: Shalit

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 GERUSALEMME. Gilad Shalit potrebbe essere trasferito già  lunedì prossimo in Egitto. Lo annunciavano ieri rappresentanti di Hamas. Altri prevedono tempi un po’ più lunghi. Nel momento in cui il caporale israeliano – catturato nel 2006 non lontano dal valico di Kerem Shalom da un commando palestinese e rimasto prigioniero a Gaza sino ad oggi – varcherà  la frontiera, Israele inizierà  a liberare 477 detenuti politici palestinesi che saranno ugualmente portati in Egitto e andranno poi nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Vi sono anche cittadini giordani tra i 1027 detenuti (mille uomini e 27 donne) che Israele libererà  in cambio del rilascio di Shalit, come Elaham Tamimi. E palestinesi con la cittadinanza israeliana.

La seconda fase dell’accordo verrà  messa in pratica tra due mesi, con il rilascio di altri 550 palestinesi. Con queste modalità  dovrebbe svolgersi lo scambio di prigionieri tra Israele e il movimento islamico contenuto nell’accordo che le due parti hanno sottoscritto martedì al Cairo, con l’aiuto delle autorità  egiziane e di un mediatore tedesco. Ma la procedura non è stata chiarita in tutti i particolari che vengono resi noti con il passare delle ore.
Sicuri che le cose «andranno bene», come ha promesso due giorni fa il premier israeliano Netanyahu, sono i genitori di Shalit che ieri hanno smontato la tenda eretta a Gerusalemme per tenere sotto pressione il governo, hanno incontrato e ringraziato il capo dello stato Peres e imboccato la strada di casa tra i festeggiamenti di migliaia di sostenitori.
Ma ieri hanno festeggiato per ore anche in Cisgiordania e Gaza. La gioia ha coivolto migliaia di palestinesi e non soltanto i famigliari dei detenuti che saranno scarcerati. Il primo prigioniero che farà  ritorno a casa sarà  Nail Barghouti, il «decano», che ha trascorso 34 anni dietro le sbarre dove è stato portato quando aveva 20 anni. Non verrà  liberato invece un altro Barghouti, Marwan, il popolare segretario di Fatah in Cisgiordania. E neppure il segretario generale del Fronte popolare Ahmad Saadat. Sono i prigionieri più importanti, con un peso politico eccezionale che riescono a far sentire anche dalla cella in cui sono rinchiusi da 10 anni.
La loro mancata liberazione trova una spiegazione all’interno di quell’incrocio di interessi che è alla base dell’accordo raggiunto a sorpresa da Israele e Hamas dopo mesi di silenzio sullo scambio di prigionieri. Ed è chiaro che una delle due parti ha ceduto.
Su Hamas ha certamente pesato la necessità  di rompere l’isolamento totale nel quale viene tenuto da anni, a causa del blocco attuato da Israele, nonché di recuperare consensi e di rispondere con un «successo» dal forte impatto nei Territori occupati alle recenti iniziative diplomatiche del rivale presidente dell’Anp Abu Mazen alle Nazioni unite che hanno raccolto molte adesioni anche a Gaza, roccaforte del movimento islamico. «E’ una vittoria, un risultato storico nazionale», ha detto il leader di Hamas, Khaled Meshaal ma a parlare di «vittoria» piuttosto dovrebbe essere il premier israeliano, che però non può farlo, per non urtare i sentimenti dei familiari delle vittime degli attentati e per non alimentare le polemiche con l’ultra-destra che lo accusa di aver venduto il paese ai «terroristi». Netanyahu, a ben guardare, ha ottenuto il soddisfacimento delle principali condizioni che aveva posto due anni fa facendo saltare all’ultimo momento l’accordo per la liberazione di Shalit e dei detenuti politici palestinesi. Il capo dell’intelligence (Shin Bet) Yoram Cohen ha preciato che 203 detenuti palestinesi non torneranno alle loro case: una quarantina andranno in esilio in vari paesi, gli altri verranno confinati a Gaza. E come chiedeva ancora Netanyahu, Hamas ha rinunciato anche alla scarcerazione di alcuni detenuti condannati per diversi attentati, Hassan Salameh e Jamal Abu Al-Hijja. Il movimento islamico comunque vivrà  una nuova stagione di popolarità  per essere riuscito a far uscire di prigione più di mille palestinesi in una sola volta. L’Anp lo sa, Abu Mazen è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a dichiararsi «felice». Ma in queste ore il presidente palestinese ingerisce pillole contro il mal di stomaco.
Da parte sua Netanyahu, riportando Ghilad Shalit a casa, ricostruisce il rapporto con l’opinione pubblica israeliana dopo una estate di proteste popolari contro il carovita e la politica economica liberista del governo. Non solo, il primo ministro ritiene di aver migliorato in un colpo solo la sua immagine internazionale e di essersi segnalato come un leader «pragmatico» capace di fare «scelte dolorose» e di scendere a patti con i nemici del suo paese. Quanto gli basta per guadagnare tempo e continuare le pressioni all’Onu volte ad impedire che venga accettata la richiesta di adesione dello Stato di Palestina presentata il mese scorso da Abu Mazen al Palazzo di vetro.


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