Wikicrazia. La democrazia che nasce sul web

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In principio sono stati i Moratti Quotes, citazioni fasulle ma verosimili del sindaco uscente Letizia Moratti: satira pura. Circolavano in rete alla velocità  della luce. Cose tipo: “Pisapia mi ha detto che mi rubava un attimo, ma non me lo ha più restituito”. Oppure, “Pisapia ha dato la laurea in medicina a Scilipoti…”. Cose così. Dopo la festa per la vittoria, però, qualcosa è cambiato. Il pubblicitario milanese Paolo Iabichino ha lanciato su Twitter il tema #pisapiasentilamia, e in poche ore migliaia di persone sono passate dalle risate alle proposte per il nuovo sindaco. Che a un certo punto è pure intervenuto per dire: «Grazie d’aver colto il mio “non lasciatemi solo”. Vi sto ascoltando», mentre sempre su Twitter partivano #fassinosentitorino, #berrutilasciachetiaiuti e #renzichenepensi. Voglia di partecipare, insomma.
La seconda scena avviene a Cagliari, negli stessi giorni. Marcello Verona è un giovane informatico e intuisce che il suo coetaneo Massimo Zedda, appena eletto sindaco, ha bisogno di aiuto per governare. Così va in rete, si registra su una piattaforma per discutere idee, la chiama Ideario per Cagliari e invita i cagliaritani a entrarci: “Ora tocca a noi”. Nei primi cento giorni si registrano 520 idee per la città  con 2.600 commenti e 12mila voti. È un bell’aiuto per Zedda. A costo zero.
La terza scena è di qualche giorno fa. A Matera una trentina di ragazzi, molto idealisti e molto preparati, stanno studiando da una settimana alla scuola estiva della Rena, un network di eccellenze italiane. Il tema è come cambiare la qualità  delle decisioni politiche attraverso Internet. Con la partecipazione certo, ma si parla molto anche di Open Data, ovvero di liberare i dati pubblici in modo da generare soluzioni creative dal basso ad annosi problemi. A un certo punto uno dei partecipanti dice: «Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, ma cosa tu puoi fare con i dati del tuo paese». È Kennedy 2.0.
Se qualcuno si sta ancora chiedendo dove è finita la straordinaria onda emotiva che in primavera ha determinato gli esiti delle elezioni amministrative e dei referendum, la risposta è: sul web.
Qui, senza grandi proclami e praticamente senza soldi, si sta sperimentando una nuova forma di democrazia. Nel mondo lo chiamano Open Government, ma c’è una definizione forse più efficace: Wikicrazia. L’ha coniata Alberto Cottica, 41 anni, da Modena, che dopo una vita da musicista di successo con i Modena City Ramblers, oggi si occupa di questi temi per il Consiglio d’Europa: la Wikicrazia, secondo questa impostazione, è una democrazia potenziata dagli strumenti collaborativi della rete (i wiki) e dalla intelligenza collettiva che ha creato fenomeni come Wikipedia.
A livello accademico il fenomeno è molto studiato anche se in fondo è bastato aggiungere una “w” e passare dall’e-gov, il governo che si mette in rete per dare servizi; al we-gov, i cittadini che diventano cocreatori delle politiche pubbliche. Secondo un recente report della Elon University e del Pew Research Center sul futuro di Internet, entro il 2020 le forme di cooperazione online miglioreranno l’efficacia delle istituzioni democratiche nel rispondere alle esigenze dei cittadini. Se questa cosa non si chiama rivoluzione, poco ci manca.
In molti paesi sta già  accadendo. Secondo Cottica «il primo presidente wiki della storia è Barack Obama». Più che la strategia elettorale online, in questo contesto contano i tanti strumenti attivati per favorire la partecipazione: «Le sfide che abbiamo davanti sono troppo grandi perché il governo possa farcela da solo, senza il contributo creativo del popolo americano», disse il neoeletto presidente degli Stati Uniti lanciando siti come data.gov, challenge.gov e apps4democracy. Va detto che i buoni risultati ottenuti finora sono stati inferiori alle enormi aspettative iniziali. «E le dimissioni del responsabile del progetto, Vivek Kundra, lo scorso giugno, non sono certo un bel segnale», osserva David Osimo, che si occupa di questi temi per la Commissione europea.
La staffetta dell’Open Government sembra così passata nel Regno Unito, nelle mani di David Cameron. «Stiamo cercando di mettere la tecnologia e l’innovazione al centro di tutto quello che facciamo», ha spiegato recentemente a New York a una conferenza Rohan Silva, 29 anni, assistente del premier: «Vogliamo diventare il governo più aperto e trasparente del mondo per innescare una scarica di innovazione sociale». Primo esempio, il sito dove discutere come tagliare le spese del bilancio britannico che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone.
Ma non è dai governi che arriva la Wikicrazia. È piuttosto un movimento che parte dal basso. E che ha una data di inizio certa. Nel settembre 2003, Tom Steinberg lancia Mysociety, sicuramente il progetto più ambizioso di e-democracy mai realizzato. Con una donazione iniziale di 250 mila sterline, il team di Steinberg sviluppa in pochi anni una serie di servizi tanto semplici quanto efficaci: Fixmystreet, ripara la mia strada, un applicazione per segnalare problemi e disservizi direttamente all’autorità  locale (copiatissimo); theyworkforyou, un resoconto aggiornato quasi in tempo reale dell’attività  di ogni singolo membro del Parlamento. E infine un modo per mandare petizioni online al premier. I servizi sono gratuiti, economici, scalabili, facili da usare. Questo il bilancio provvisorio: dopo sette anni più di 200 mila persone hanno scritto almeno una volta al premier, qualche petizione ha persino modificato decisioni già  prese (il pedaggio stradale voluto e rimangiato dal governo Blair), e qualcosa come 65mila buche stradali sono state riparate.
Nel 2009, l’attenzione si sposta dal governo nazionale a quello locale. La svolta avviene ad una conferenza organizzata dal guru del web 2.0 Tim O’Reilly. «Le entrate calano, i costi aumentano: se non cambiamo il modo in cui funzionano, le città  falliranno», dice in sostanza dal palco Jennifer Pahlka che qualche mese dopo lancia Codeforamerica, una fondazione per aiutare le città  americane a diventare più trasparenti, connesse ed efficienti con l’aiuto del web. Lo scorso anno hanno aderito Boston, Washington e Seattle ma l’esempio più riuscito forse è Filadelfia con il sito opendataphilly.org: un gigantesco hub dove i dati comunali hanno spontaneamente generato centinaia di applicazioni utili ad i cittadini.
Codeforamerica funziona così: ad ogni città  vengono inviati per un anno cinque sviluppatori. Sono in missione per conto del web, insomma. Qualche giorno fa si è chiusa la selezione per il 2012: per 26 posti hanno partecipato 550 persone da tutto il mondo. Perché lo fanno? Perché ci credono. Li chiamano “civic hackers”, sono esperti di tecnologia con la passione per i valori di condivisione della rete che sognano una nuova politica.
In Italia gli antesignani sono stati i romani di Open Polis, che dal 2008 mettono online “a mano” tutti i dati dell’attività  del Parlamento e monitorano le attività  dei 130 mila politici eletti. Ma ora il focus è sugli strumenti per partecipare e collaborare: i social network dei cittadini, come Epart, il neonato Decorourbano e il prossimo Uptu. O anche il gioco Critical City, che usa il web per portare le persone a fare delle cose concrete nella propria città : delle missioni civiche.
Ma l’impressione è che si stia muovendo qualcosa di più grosso. Tra qualche giorno nascerà  per esempio Apps4Italy, un sito dove le prime dodici regioni hanno deciso di condividere i loro dati per far generare dagli utenti “apps”, applicazioni, ovvero servizi socialmente utili. È solo l’inizio: il 20 settembre ci sarà  il varo ufficiale della Open Government Partnership, una alleanza promossa da Usa e Brasile con Gran Bretagna, Norvegia, Messico, Indonesia, Filippine e Sud Africa. Nove paesi sono già  in lista d’attesa per entrare in questo network.
Il governo italiano è assente per ora, ma, come abbiamo visto, in questa sfida che ha l’ambizione di ridisegnare le regole d’ingaggio della politica, l’Italia c’è.


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