Wall Street, l’economia in macerie

by Sergio Segio | 7 Settembre 2011 6:33

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New York. Howard Lutnick, 50 anni, oggi lavora al secondo piano di un grattacielo a Midtown Manhattan. Centotré piani più in basso di dove si trovava il suo ufficio dieci anni fa. Sulla scrivania tiene un bronzo di Rodin: una mano di cui sono andate perse diverse dita. Fu ritrovata rovente tra le macerie di Ground Zero, apparteneva alla collezione privata di Cantor Fitzgerald.
Il nome di questa società  di trading finanziario evoca una delle storie più terribili dell’11 settembre. Con uffici situati al 105esimo piano della Tower One, fu la singola azienda che pagò il più pesante tributo di vittime: 658 morti, quasi un quarto di tutti i caduti nell’attacco alle Torri gemelle. Incluso il fratello di Howard Lutnick, Gary. Lui, Howard, si salvò solo perché quella mattina era in ritardo, per accompagnare il figlio alla scuola materna. La storia di Howard per alcuni è una fantastica parabola: dell’umanità  che resiste, dell’America intraprendente e indomita che si risolleva. Per altri, al contrario, è il simbolo sinistro di tutto ciò che è andato storto in questo decennio: del “nemico dentro”, quello che davvero ha piegato gli Stati Uniti.
Fin dall’inizio Howard fu un personaggio controverso. Nell’ansia di rimettere in piedi la società  Cantor Fitzgerald dopo l’ecatombe dei suoi dipendenti, pochi giorni dopo l’11 settembre lui aveva già  interrotto il versamento degli stipendi alle vedove dei suoi collaboratori, prima ancora che i decessi fossero accertati. «Mi fa schifo, sono disgustata», disse in lacrime una vedova intervistata da Cnbc quattro giorni dopo la strage. Ma oggi nel suo nuovo ufficio Lutnick, chief executive della società , può vantarsi di avere assunto ben cinquemila dipendenti, più del doppio dello staff originario nel 2001 (solo 74 sono degli ex, sopravvissuti come lui). Tra i business che lui ha aggiunto di recente alla panoplia delle attività  finanziarie di Cantor Fitzgerald figurano le scommesse sportive a Las Vegas. Affari a gonfie vele, per lui. Ma nella stessa Las Vegas, se vai su Google e clicchi “foreclosures” (pignoramenti esecutivi di case, sequestrate ai proprietari perché in bancarotta, insolventi sui mutui) la mappa cittadina si costella di puntini rossi, decine di migliaia di famiglie sul lastrico, case abbandonate. Se volesse, Lutnick potrebbe comprarle tutte assieme firmando un assegno, una frazione del suo bonus di fine anno.
Lutnick è solo un personaggio minore dei tanti che affollano la contro-storia di questo decennio. Quell’11 settembre ci fu, fortissimo e verosimile, il timore che il capitalismo americano potesse vacillare sotto il colpo di Al Qaeda. E dieci anni dopo l’economia nazionale è davvero in ginocchio: 25 milioni di disoccupati, il debito pubblico alle stelle, il Tesoro di Washington declassato da Standard & Poor’s e “vigilato speciale” dal governo cinese, il dollaro ai minimi storici sulle monete del Brasile, della Russia, dell’India. Il costo di questo disastro economico lo paga Barack Obama con un tracollo nei sondaggi che può costargli la rielezione. A nulla gli è valso aver ucciso Osama Bin Laden.
Perché la vera storia dell’attacco mortale contro il capitalismo americano ha una data d’inizio leggermente diversa dall’11 settembre. È ottanta giorni dopo l’attacco alle Torri gemelle, il 2 dicembre 2001, la bancarotta di Enron. Più di Osama Bin Laden, per affossare il capitalismo americano furono efficaci Kenneth Lay e Jeff Skilling, i due capi della società  texana legata a doppio filo con George Bush e Dick Cheney, travolta dal falso in bilancio dopo essere stata una star di Wall Street. E dopo di loro la vera galleria dei nemici dell’America, quelli che dall’interno l’hanno logorata e stremata ben più dei terroristi, prosegue con Bernard Ebbers chief executive di WorldCom (100 miliardi di perdite per gli azionisti, bancarotta fraudolenta nel 2002), arriva fino ai banchieri come Dick Fuld (bancarotta di Lehman Brothers, 15 settembre 2008) e al tuttora potentissimo Lloyd Blankfein che alla guida di Goldman Sachs dichiarò all’apice della recessione nel novembre 2009: «Sono un banchiere che fa il mestiere di Dio». Senza dimenticare nel Pantheon dei grandi sabotatori un genio come Robert Rubin, ex Goldman Sachs, poi al vertice di Citigroup: che lo ringraziò con 126 milioni di buonuscita per i disastrosi risultati del suo mandato. Rubin, già  segretario al Tesoro di Bill Clinton, si era distinto anche come il più ascoltato consigliere economico di Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008.
La vera storia dei dieci anni più disastrosi per l’economia americana non inizia l’11 settembre, ma subito dopo: quando Bush incita i suoi concittadini «uscite di casa, andate negli shopping mall, patriottismo è andare a spendere perché la nazione non si fermi». Da quello slogan indimenticabile emana la più magistrale giustificazione ideologica per il decennio della “vita a credito”, del boom immobiliare finanziato coi mutui subprime, della nazione in declino che vive al di sopra dei suoi mezzi vendendo buoni del Tesoro ai cinesi.
Nella storia parallela di questa decade post-11 settembre i neoconservatori strumentalizzano il terrorismo per giustificare un’agenda ideologica pre-esistente: tutti sanno della guerra in Iraq, ovviamente. Ma altrettanto cruciale è la decisione di Bush di giustificare così gli sgravi fiscali ai ricchi, di colpo legittimati come una misura patriottica, anti-recessiva, essenziale «perché Al Qaeda non deve mettere in ginocchio l’economia». Ha inizio così, dieci anni fa, quella che l’allora Comptroller General (l’equivalente del presidente della Corte dei Conti), David Walker, definisce «il più scellerato anno fiscale nella storia della Repubblica». È un acceleratore formidabile delle diseguaglianze sociali, a loro volta causa strutturale della recessione (per la mancanza di potere d’acquisto della middle class).
Frank Rich nel New York Magazine dedicato al decennale è convinto che tutto ha inizio «con la decisione di Bush di escludere ogni sacrificio nazionale equamente condiviso, per finanziare le guerre; nella sua invocazione ai consumatori: andate a Disney World, andate in Florida» come risposta alla strage. Sta lì perfino l’origine del Tea Party, «il cancro politico dell’America di oggi: se non ci fu bisogno di tasse per pagare due guerre, perché mai dovremmo pagare tasse per alcunché?». E c’è infine, dalla Enron che aveva finanziato generosamente la campagna elettorale di Bush, l’avvio del decennio senza regole per l’oligarchia finanziaria, le impunità  per il capitalismo predone, le bolle speculative che sarebbero deflagrate facendo male solo a chi stava sotto: la maggioranza degli americani.
In quanto a stabilire chi ha vinto dieci anni dopo, il verdetto lo ha pronunciato il regista del documentario-denuncia su Wall Street, “Inside Job” nel ricevere l’Oscar: «A tre anni di distanza dal tracollo della Borsa e dell’economia mondiale – ha detto Charles Ferguson – non un solo banchiere è finito in galera». È andata peggio a Bin Laden.

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