Ventisettesimo maori. Il battaglione che danzò sul campo di Cassino

by Sergio Segio | 18 Settembre 2011 6:15

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Quella mattina di pioggia i guerrieri maori si sono disposti in semicerchio, secondo la tradizione. Hanno cominciato a gonfiare le guance come rospi, a strabuzzare gli occhi. A sbuffare, emettendo dei gemiti inquietanti. A contorcere il viso in un delirio di espressioni indemoniate, mostrando la lingua ed entrando in una sorta di trance. E tutto è cominciato. Un urlo: «Ka mate, ka ora» («è la morte, è la vita»). All’unisono si sono battuti il petto, hanno piegato le gambe e picchiato i piedi per terra, stretto i pugni, contratto i muscoli. Hanno alzato le braccia verso il cielo, invocando i loro idoli prima di un’altra battaglia. Era la haka, la danza di guerra resa celebre in tutto il mondo dagli All Blacks, i giocatori di rugby neozelandesi. Era la prima volta che veniva eseguita in Italia. Ed era la primavera del 1944. Terminato il rito, i guerrieri hanno imbracciato i fucili con le baionette e risalito il colle, sulle macerie di Cassino. Incuranti delle cannonate dei tank della Decima armata tedesca.
«Datemi il Battaglione Maori, e vincerò la guerra», confessava Erwin Rommel, la Volpe del deserto, il generale comandante dell’Afrika Korps nazista. Sbalordito e affascinato dal coraggio, dall’orgoglio e dalla straordinaria attitudine alla lotta di questi uomini. Nati per combattere, come sanno bene gli appassionati di sport e in particolare di palla ovale. Indomabili e avventurosi. Giunti per primi dalla Polinesia alle isole della Nuova Zelanda, l’ultima terra emersa, meno di un migliaio d’anni fa. Sbarcati dopo una traversata infinita, settimane in mare a bordo di canoe con le sole stelle a tracciare la rotta. Viaggio e battaglia. Pronti già  a scendere in campo in Europa nella Prima guerra mondiale come cittadini britannici a fianco dei pakeha, i neozelandesi bianchi, quelli che nell’Ottocento si stabilirono nelle loro terre e con cui l’atavica diffidenza – dicono – non sia mai stata risolta. Nel secondo conflitto furono i capi tribù a spingere perché il governo di Wellington istituisse un corpo speciale di fanteria composto solo da nativi: il Ventottesimo Battaglione, ribattezzato il Battaglione Maori, aggregato alla Seconda divisione neozelandese e schierato per sei anni con le forze alleate su diversi fronti, dall’Inghilterra alla Grecia, dalla Tunisia all’Egitto. All’Italia. Dal 1940 al 1946, tremilaseicento uomini provenienti da regioni e centri dai nomi evocativi come Tairawhiti, Waikato, Rotorua, Maniapoto.
La leggenda del Battaglione Maori è raccontata in maniera esemplare da un libro, Nga Tama Toa: The Prize of Citizenship (I guerrieri: il prezzo della cittadinanza) che raccoglie fotografie e testimonianze dei protagonisti di allora e in Nuova Zelanda ha un eccezionale e comprensibile successo, perché questo è un pezzo di storia di una delle più giovani nazioni del mondo. Anche un pezzo della nostra storia, se è vero che due lunghi capitoli sono dedicati alla campagna d’Italia. Cominciata il 22 ottobre del 1943 con lo sbarco a Taranto, dopo i primi anni passati prima ad addestrarsi tra Folkestone e Dover, poi in Grecia, dalle Termopili a Creta, in Egitto ad El Alamein e Marsa Matrouth (247 italiani fatti prigionieri), e ancora Takrouna in Tunisia. I guerrieri maori risalgono la penisola con gli Alleati, quattrocento chilometri per raggiungere l’Ottava armata e sfondare la linea Gustav. Prima con i gurkha indiani sotto la pioggia battente oltre il fiume Sangro, in prima linea a dicembre nelle battaglie per conquistare le strade e la linea ferroviaria nei pressi di Orsogna e Ortona (11 morti, 222 feriti), poi una sosta a Sant’Angelo d’Alife e di nuovo in marcia verso la valle del Liri.
Montecassino, la seconda battaglia del 17 febbraio per conquistare la stazione ferroviaria. Il capitano Matarehua Wikiriwhi, quello che dicono guidasse la haka e che alla fine avrà  una gamba amputata (quando tutto sarà  finito tornerà  a casa dal capo tribù, Takarua Tamarau, per dirgli che suo figlio Hori gli aveva salvato la vita proteggendolo col corpo dal fuoco nemico), che chiede ai suoi uomini di tornare indietro – «Non possiamo combattere i carrarmati con le baionette» – ma quelli non vogliono sentire ragioni. La terza e la quarta battaglia. La vittoria finale, a un prezzo altissimo: 340 uomini del battaglione muoiono, altri milleduecento rimangono feriti. Il sacrificio e la prova di coraggio dei maori, la loro determinazione nei combattimenti corpo a corpo, risultano decisive. I militari dopo tanti mesi si concedono il primo hangi, il pranzo tradizionale, carne e tuberi stufati.
Riprendono l’avanzata e i racconti, ma con il passare dei giorni alla febbre della battaglia si sostituisce quella del viaggio: Firenze, Camerino, il secondo inverno sul fiume Senio e il Santerno. «Mio nonno, che era di Granarolo, li vide giocare a rugby sotto la neve, a Faenza», ricorda Luciano Ravagnani, storica firma del giornalismo ovale. Poi Udine e Trieste, dove sfiorano lo scontro con gli uomini del maresciallo Tito e poi vengono inviati a Prosecco, pronti – se necessario – ad affrontare gli jugoslavi con le armi. Ed è in queste pagine che i maori confessano tutta la loro empatia con gli italiani. Che parlano una lingua dai suoni per certi versi simili, niente a che vedere con l’inglese. «Alla maggior parte degli italiani, specialmente nel sud, non importa la differenza nel colore della pelle – scrive un giornalista neozelandese dell’epoca – Anche nel nord sono sempre benvoluti, i pakeha sono invidiosi del loro successo. Sono generosi, ma non comprano l’amicizia. Le donne italiane di tutte le età  amano i maori, e non è una questione di sesso. La verità  è che si assomigliano, sembrano pensare nello stesso modo. I maori hanno un approccio diretto che piace agli italiani. E la loro indipendenza, la loro fisicità , fanno una grande impressione».
Massimo Valli è un ragazzino di Faenza, e ricorda di fronte a palazzo Pancrazi una battaglia a palle di neve con quei signori «dalla pelle scura, che erano generosi e avevano delle chitarre, amavano la musica e imparavano presto le nostre canzoni». Nepia Mahuika racconta che a Camerino uno dei suoi commilitoni, Wharehinga, si innamora di una ragazza. Si fa accompagnare nella casa del padre di lei da un altro maori che parla italiano, ma anche quello finisce per innamorarsi della stessa giovane. E quando Wharehinga danza una haka di benvenuto per il futuro suocero e questo si lamenta («Mi rovina il tappeto»), l’interprete traduce apposta «voglio che danzi sul mio tavolo». Wharehinga salta sul tavolo e viene cacciato di casa, lasciando campo libero al rivale in amore.
All’inizio dell’estate del 1945, il Battaglione Maori lascia Trieste su di un treno senza sedili. Ci sono tante ragazze alla partenza, ma il comandante Awatere è irremovibile: «Perché volete portarle con voi? Molte wahine (ragazze) vi aspettano in patria. Tornate a casa e sposatevi». Alcuni vengono trasferiti nei pressi del Trasimeno. Ma la maggior parte vuole continuare a combattere e chiede di andare sull’ultimo fronte ancora attivo, quello asiatico, perché il Giappone non si è arreso. Non ancora.
Dal 9 settembre la Nuova Zelanda sta ospitando i campionati mondiali di rugby. Jim Love, che è stato giocatore di valore e buon allenatore in Italia prima di tornare nella sua Rotorua – dove dirige l’Accademia giovanile – ha scommesso sulla vittoria degli All Blacks. «È la tradizione marziale dei maori – ha detto, aggrottando un po’ la fronte a proposito dell’abilità  tattica dei connazionali pakeha – Lasciateci combattere e vedrete come finirà . Non ci saranno prigionieri. Giuro». A guidare la haka che precede ogni battaglia in campo è Piri Weepu. Un maori. Un antico guerriero che contorce il viso, strabuzza gli occhi, tira fuori la lingua. Come settant’anni fa, a Cassino.

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