Uno scontro sugli aiuti all’Italia ma i falchi per ora escono sconfitti
MARSIGLIA. È tutta italiana la zeppa su cui inciampano, si avvitano ed entrano in collisione i due soli poteri forti rimasti in Europa: la Germania e la Banca centrale europea. La Grecia ha indignato i tedeschi per la disonestà con cui aveva falsificato i conti nascondendo l’entità del buco di bilancio.
L’Italia li ha esasperati per l’inettitudine con cui ha gestito la crisi del suo debito, talmente enorme da poter far implodere la moneta unica. Alla fine, proprio per salvare l’euro, la Banca centrale è stata costretta a intervenire dettando a Berlusconi i termini della manovra che avrebbe dovuto varare per consentire a Francoforte di venirci in aiuto acquistando Bot. Un passo che, per gli ayatollah dell’ortodossia monetaria, suona come un doppio sacrilegio. Primo, perché nella logica luterana della Bundesbank, chi sbaglia deve pagare. Secondo, perché se è sacrosanto il precetto che la Banca centrale deve essere indipendente dai governi, appare addirittura inconcepibile l’inverso: che un governo venga messo sotto tutela dalla Banca centrale. E comunque, nonostante il controverso commissariamento europeo di Berlusconi, l’Europa è rimasta appesa per quindici giorni al mortificante teatrino della politica italiana messo in scena da un centro destra indeciso a tutto. Fino all’intervento risolutivo di Napolitano.
E’ questo lo scenario che fa da sfondo alle dimissioni di Juergen Stark, il membro tedesco del board della Bce, che ieri hanno precipitato i mercati e l’euro in un ennesimo tuffo senza rete.
Dietro il suo abbandono c’è la scoperta di un paradosso incomprensibile per la logica tedesca: quell’Europa che non aveva voluto darsi una vera unione politica per preservare la virtuosità dei governi più lungimiranti ed efficienti, alla fine si trova tutta in ostaggio dei governi più stupidi, disonesti, o pasticcioni. Ed è costretta a venire in loro soccorso con un atto di umiltà che molti, a Nord delle Alpi, considerano insopportabile.
Stark è il secondo membro tedesco della Banca centrale europea a dimettersi nel 2011. A febbraio se ne era andato il presidente della Bundesbank, Axel Weber, membro del consiglio dei governatori della Bce e candidato alla successione di Trichet, in disaccordo sull’intervento per il salvataggio della Grecia. Queste nuove dimissioni si iscrivono nella stessa logica. Ma sarebbe sbagliato credere che esse siano soltanto la spia delle crescenti e malcelate divisioni in seno all’autorità monetaria europea. Esse probabilmente rivelano anche le prime crepe nel muro tedesco, che finora aveva opposto alle emergenze della crisi il verbo inesorabile e immutabile dell’ortodossia monetaria.
Le origini immediate delle dimissioni di Stark si possono far risalire a domenica 7 agosto, quando il board della Bce, riunito in teleconferenza, approva a maggioranza la decisione di acquistare i titoli di Stato italiani e spagnoli sotto attacco, dopo che il governo Berlusconi si era frettolosamente impegnato a varare una manovra correttiva secondo le linee dettate da Francoforte. In quell’occasione, a quanto si dice, Jurgen Stark votò contro la decisione, come fece anche il nuovo presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Ma ciò che probabilmente ha innescato la delusione di Stark non è stato tanto il fatto di ritrovarsi in minoranza nel Consiglio della Bce, quanto il comunicato congiunto con cui, nelle stesse ore, Merkel e Sarkozy in sostanza benedicevano l’intervento a favore di Italia e Spagna.
Una posizione, quella franco-tedesca, confermata una settimana dopo in occasione del vertice straordinario tra il presidente francese e la cancelliera tedesca.
In realtà , le affannose consultazioni del mese di agosto hanno portato ad un impercettibile ma fondamentale spostamento nella linea del capo del governo di Berlino. Messa di fronte alla scelta drammatica tra salvare i principi e salvare l’euro, Angela Merkel, spinta e tirata da Sarkozy, ha scelto l’euro. E questo ha aperto un confitto in seno al monolite tedesco, tra il governo e la Bundesbank, e all’interno dello stesso establishment della maggioranza di governo. Già isolata politicamente da una opposizione in cui verdi e socialdemocratici hanno da tempo accettato l’idea degli eurobond e della solidarietà europea, la Cancelliera si sta lentamente preparando a cambiare rotta, anche sotto la spinta della lobby industriale tedesca che vede come una condanna a morte per l’export “made in Germany” un possibile fallimento dell’Unione monetaria.
Ma la parte di establishment che resta fedele all’ortodossia monetaria ereditata da Theo Weigel, il mitico ministro delle Finanze di Helmut Kohl, non vuole rassegnarsi al cambiamento che si profila all’orizzonte. E, spalleggiata anche dai falchi olandesi e finlandesi, alza la voce nella speranza di bloccare l’evoluzione prima che sia troppo tardi. Questo spiega anche le recenti dichiarazioni oltranziste del premier olandese e la raffica di attacchi di esponenti tedeschi contro il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. Attacchi a cui Trichet ha risposto con toni inusitatamente bruschi, ricordando che nei suoi dodici anni di vita la Banca centrale europea ha protetto la Germania dall’inflazione «meglio di quanto abbia fatto la Bundesbank».
Le dimissioni di Stark, ieri, come quelle di Weber sei mesi fa, sembrano dimostrare che il forcing dei falchi tedeschi è per il momento fallito. E la probabile nomina nel board della Bce di Jorg Asmussen, un politico che ha studiato anche alla Bocconi, suonano come una conferma che in Germania sta affermandosi una linea più flessibile e pragmatica. Nello scontro titanico sul futuro d’Europa tra Bce e Bundesbank, tra Francoforte e Berlino, alla fine il potere più forte è risultato quello che, forse, riuscirà a salvare l’Italia, e con l’Italia l’euro.
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