Una ricerca rivela: l’economia palestinese dipende da Tel Aviv
BEIT SAHOUR (CISGIORDANIA).Duemila 555 milioni di dollari l’anno vengono investiti in Israele da uomini d’affari dei Territori occupati. Sedicimila palestinesi sono in possesso di un lasciapassare per recarsi dall’altra parte del muro: dove l’insieme degli investimenti diretti palestinesi – calcolati su tutti gli intervalli dal 1993 al 2010 – costituiva nel 2009 ben il 60% del totale degli investimenti diretti per Israele.
Più di un milione va nelle colonie israeliane costruite in Cisgiordania. Il 53% delle aziende palestinesi ha un contratto diretto o indiretto con compagnie israeliane: fare affari in Palestina non conviene, tanto che il totale degli investimenti nei Territori occupati è un quinto del capitale che va a finire oltre i checkpoint. L’economia palestinese perde così una media di oltre 2.500 milioni di dollari l’anno, l’equivalente di metà del Pil. Sono questi i risultati dello studio sugli investimenti diretti palestinesi di Issa Smirat, laureato in economia all’università Al Quds di Abu Dis.
Oltre 40 anni di occupazione hanno destrutturato l’economia palestinese, rendendola dipendente da Israele. Nel 1970, pochi anni dopo l’occupazione militare del 1967, il 70% del fabbisogno alimentare palestinese veniva soddisfatto grazie all’agricoltura, che ancora nel 1990 costituiva il 20% del Pil. Oggi, vent’anni dopo gli accordi di Oslo, rappresenta meno del 2% .
Confisca delle terre e delle risorse d’acqua, difficoltà di movimento all’interno dei Territori e impossibilità di un contatto con l’estero, se non attraverso Israele: sono questi i fattori che hanno distrutto ogni possibilità di sviluppo economico autonomo. Oggi, la Palestina importa 80% del suo fabbisogno da Israele.
Mentre il rapporto della Conferenza Onu sul Commercio e lo sviluppo (Unctad) dello scorso agosto mostra una tendenza crescente del tasso di disoccupazione palestinese (30%) e un calo costante del Pil dal 1999 ad oggi, la ricerca di Issa Smirat rivela ritorni annuali superiori a un milione di dollari per 10% degli investitori palestinesi operanti in Israele. La maggior parte è di Hebron, Ramallah e Nablus e ha alle spalle vent’anni di esperienza nel settore.
Lo studio mostra un rapporto negativo tra livello di educazione e scelta di investire in Israele: solo il 7% degli investitori ha un titolo di laurea specialistica, ma l’equivalente del 50% degli investitori è privo di educazione superiore.
Il capitale finisce soprattutto nell’industria e nell’edilizia, spesso e volentieri anche nella costruzione delle colonie. Importare materie prime in Israele è più semplice ed economico, e anche l’elettricità e la manodopera costano molto meno. È questa una delle determinanti più significative: l’investitore palestinese può contare su lavoratori a basso costo che porta con sé dai Territori. Tra gli altri fattori di attrazione del mercato israeliano si contano la maggiore aspettativa di guadagno e una grande sicurezza finanziaria. La scarsa fiducia nell’economia dei Territori e la bassa competitività dei prodotti palestinesi, tassati da Israele per l’esportazione, spingono a investire fuori dallo Stato di Palestina.
Alla domanda se sarebbe disposto a smettere di investire in Israele, un terzo risponde negativamente. Un altro terzo sarebbe disposto a ritirare i propri investimenti se l’Autorità palestinese offrisse facilitazioni finanziarie e migliori infrastrutture.
«Se guardiamo a Israele come una costante – dichiara Issa Smirat – non c’è nulla che possa migliorare le prestazioni economiche della Palestina sotto occupazione. Io però credo che Israele sia una variabile e non una costante, e che si possano quindi limitare gli effetti dell’annessione economica da parte di Israele». Tra le raccomandazioni all’Anp, la costruzione di un aereoporto in Cisgiordania e di un porto a Gaza, così come un maggior impegno per migliorare la fiducia nell’economia e nell’ambiente finanziario, i rapporti commerciali con l’estero e per ridurre i costi di produzione.
Il dilemma dello sviluppo economico sotto occupazione non è solo questione di limitazione degli svantaggi e creazione di condizioni favorevoli. Il piano lanciato ad agosto del 2009 dal primo ministro Salam Fayyad definisce il settore privato palestinese come «motore dello sviluppo» e si impegna a facilitarne la crescita. La ricerca di Smirat mostra però come il puro interesse economico non possa far altro che dirottare gli investimenti privati verso mercati più interessanti. E un mercato sotto occupazione da 60 anni può difficilmente competere.
Ma c’è dell’altro: gli alti ritorni degli investitori palestinesi aprono una questione che va ben oltre l’economia. Questi gruppi di interesse hanno il potere di esercitare una forte pressione sulla classe politica. Una pressione che potrebbe spingere in direzione opposta all’obiettivo reale: porre fine all’occupazione militare per poter ristrutturare radicalmente gli equilibri economici e sociali.
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