Un potere opaco e sotto schiaffo indebolisce la democrazia

by Sergio Segio | 8 Settembre 2011 6:36

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Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all’imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l’obiettivo di coartare la libertà  dell’agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un’estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà .
Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà  luogo, certamente, a una solidarietà  di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità .
In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.
C’è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.
Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l’aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità  che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c’è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l’agire dell’uomo politico. E c’è quindi la forte probabilità  che insieme al denaro (l’aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà  d’azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.
Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità  e della trasparenza dell’esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità  democratica, il controllo consapevole dell’opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell’avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.
Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l’impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà  di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un’utopia rivoluzionaria.

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