Territori senza sbocchi: alle stelle la disoccupazione

by Sergio Segio | 18 Settembre 2011 6:50

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Abu Mazen si presenterà  alle Nazioni Unite con una richiesta politica. Ma è difficile separare da questa la questione economica. Dal 1967 l’economia dei Territori Occupati è legata a doppio filo a quella dell’occupante. Le autorità  di Tel Aviv controllano risorse e vie di comunicazione, espropriano terre per colonie e Muro, raccolgono le tasse palestinesi e le girano al governo di Ramallah, controllano i confini e quindi import ed export.
Secondo il report di settembre del Ministero del Lavoro palestinese riguardante il 2010, dei 4,05 milioni di palestinesi di Gaza e Cisgiordania, la potenziale forza lavoro è rappresentata dal 58,39%: occupati, giovani sopra i 15 anni (età  minima di accesso al lavoro) e disoccupati in cerca di un impiego. La grande maggioranza della forza lavoro è di stanza in Cisgiordania (64,6%), il 25,3% nella Striscia e il 10,1% in Israele e nelle colonie.
A preoccupare è il crescente tasso di disoccupazione. Alla fine del 2010 è salito al 33,3%: un terzo della forza lavoro non ha un’occupazione. I contesti peggiori sono quelli dei campi profughi, dove il tasso supera in media il 30%, e dei distretti di Hebron (25%) e Betlemme (24,7%).
Pesante la situazione a Gaza: se in Cisgiordania il tasso di disoccupazione è pari al 26,6%, nella Striscia vola al 40,5%. «L’assedio israeliano – ha spiegato Amira Zuheir Mustafa, coordinatrice delle relazioni esterne dell’associazione palestinese Democracy & Workers’ Rights Center – ha determinato una crescita esponenziale della disoccupazione. Dopo l’Operazione Piombo Fuso, quasi la totalità  delle fabbriche è andata distrutta. È impossibile riavviare l’economia privata interna per la mancanza di materiali di costruzione e per il processo produttivo». Ciò spiega l’elevato tasso di occupati nell’Autorità  palestinese. Se in Cisgiordania i dipendenti pubblici sono il 16,9%, a Gaza si tocca quota 47%: la domanda di lavoro è rappresentata quasi esclusivamente dall’Anp.
Ma a cambiare negli anni è stata anche la Cisgiordania: «Prima del 2000 – ha proseguito Amira – la forza lavoro era perlopiù impiegata in Israele nelle costruzioni o in Cisgiordania in agricoltura. Con la reazione violenta israeliana alla Seconda Intifada, Tel Aviv ha chiuso la Cisgiordania, costruito il Muro e compiuto arresti indiscriminati».
Restrizioni al movimento e azioni militari che hanno danneggiato il mercato del lavoro. «I palestinesi impiegati in Israele, in particolare nel settore edile, sono drasticamente diminuiti a causa della politica dei permessi (nel 1987 erano 180mila, nel 2000 125mila, nel 2002 17mila e nel 2010 sono saliti a 71.710, ndr). Poi, la costruzione del Muro con la confisca selvaggia di terre agricole palestinesi e il controllo totale che Israele ha sulle risorse idriche spiegano perché i palestinesi in agricoltura sono solo il 10% del totale».
Ma non solo. Durante la Seconda Intifada, l’esercito israeliano ha arrestato un numero consistente di uomini in età  lavorativa. «C’è stato un aumento dell’occupazione femminile – ha concluso la Mustafa – ma non in senso positivo. Non è cresciuto il numero di donne nel lavoro legale, ma quello di donne costrette a lavorare in nero, sottopagate e senza protezione sociale».

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