Somalia, i sei mesi d’incubo dei velisti danesi

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La loro prigionia è finita solo mercoledì, dopo che un piccolo aereo partito dal Kenya ha paracadutato il riscatto: 3 milioni di dollari.
Jan Quist Johansen, sua moglie Birgit e i loro tre figli, tra i 13 e i 17 anni, i ragazzi Rune, Hjalte, e la più piccola Naja, erano stati avvisati che le acque dell’Oceano Indiano sono infestate di pirati, ma non hanno voluto dare ascolto ai richiami. Nel loro profilo di Facebook, aggiornato quotidianamente anche in viaggio, il padre aveva manifestato una grande sicurezza: «Stiamo attenti e abbiamo organizzato un piano antipirateria. Ogni giorno poi segnaliamo alle autorità  marittime la nostra posizione. Infine i pirati, non hanno mai attaccato yacht privati». Quest’ultima un’osservazione, per altro, non veritiera.
La loro cattura è avvenuta, infatti, pochi giorni dopo il tentativo, finito in tragedia, da parte di un commando americano di liberare quattro turisti (tutti uccisi) finiti anch’essi nelle mani dei pirati.
Le autorità  danesi si erano messe in contatto con i leader del Puntland, la regione semiautonoma che dovrebbe controllare i porti dove trovano rifugio i bucanieri del mare somali, per convincerli a organizzare un blitz.
L’azione di forza è stata tentata in marzo ma senza successo. Sette soldati poliziotti e un numero imprecisato di pirati erano rimasti uccisi in uno scontro a fuoco. Da qual momento sono cominciati i negoziati per il rilascio degli ostaggi. La ministra degli Esteri danese, Lene Espersen, si è rifiutata di trattare un riscatto ma ieri non ha potuto negare che la liberazione è stata ottenuta solo dopo il pagamento di una somma di denaro.
Durante la prigionia ci sono stati momenti di fortissima tensione. Il gruppo è stato diviso e una parte è stata portata a terra a Ras Bina. Un pirata ha annunciato l’intenzione di liberare la famiglia e i loro due amici, senza alcun riscatto, a patto che madre e padre gli permettessero di sposare Naja, la figlia tredicenne.
Un giornalista danese ha raccontato che Naja ha subito i peggiori maltrattamenti: non mangiava, era spesso febbricitante con nausea e vomito. Nonostante la madre avesse avuto gravi problemi alla pelle, i pirati non hanno concesso a nessun dottore di salire a bordo per visitare e curare gli ostaggi.
Ormai la pratica di paracadutare il riscatto sulle navi da liberare è diventato un business in Kenya. Famosi avvocati a Londra si occupano di parlare con i pirati, negoziare i riscatti e organizzare la consegna del denaro. Uno di essi, incontrato a Nairobi e intervistato al telefono e sotto l’impegno di non rivelare il suo nome, ha raccontato l’ultima sua mediazione. Un paio di persone portano il riscatto, in contanti, all’aeroporto di Nairobi, dove arrivano all’alba con l’aereo da Londra e scortate in un aeroporto alle falde del Monte Kenya.
Il denaro è caricato su un piccolo aereo che parte subito alla volta della nave da liberare. La sorvola almeno tre volte: la prima per farsi vedere, la seconda per controllare che l’equipaggio, ben in vista sopra coperta stia bene, la terza per lanciare il riscatto, sistemato in sacchi stagni. I pirati controllano e contano le banconote, quindi liberano la nave. Impossibile per i giornalisti salire su quell’aereo.
In mano ai pirati somali ci sono ancora due navi italiane, la Savina Caylyn, sequestrata l’8 febbraio scorso, 5 connazionali e 21 indiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, catturata il 21 aprile, con l’equipaggio, 6 italiani e 15 filippini. Le trattative sembra si siano arenate. Ieri sera al telefono delle due navi ha risposto uno dei bucanieri del mare: «Non vi faccio parlare con nessuno. Dite all’armatore di pagare», è stata la risposta secca. Più lunga la prigionia di Bruno Pellizzari, rapito con la sua compagna Deborah Calitz ben 11 mesi fa, l’11 ottobre 2010. Lavorava come skipper su uno yacht non suo. Di lui nessuno si occupa forse perché ha due passaporti, italiano e sudafricano. La sorella ha telefonato al Corriere in lacrime: «Aiutateci voi. Siamo poveri e non posiamo pagare alcun riscatto».


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