Siria. Il morso delle sanzioni

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 Si avvertono i primi effetti pratici sulla vita quotidiana delle sanzioni economiche adottate dagli Stati uniti contro il governo di Damasco. Da una settimana non funzionano carte di credito, bancomat e trasferimenti monetari internazionali in dollari (in euro pare siano ancora possibili), rendendo l’esistenza più difficile a stranieri e businessmen. Non però alla maggioranza dei siriani che non possiede carte di credito. Per ritirare valuta si torna ad andare nel vicino Libano.

Alcuni attivisti lamentano che il blocco dei trasferimenti impedisce alla diaspora siriana di supportare le attività  dell’opposizione, ad esempio aiutando le famiglie di oppositori che hanno perso il lavoro.
Gli Usa hanno aggiunto tre nomi eccellenti alla lista delle sanzioni: il ministro degli esteri Walid Al Mualem, la consigliera del presidente Butheina Shabaan e l’ambasciatore in Libano Ali Abdul Karim Ali. La Ue ha finora bloccato i beni ed il visto d’ingresso a 50 personalità  (incluso il presidente Assad) e 9 ditte accusate di avere responsabilità  nella violenta repressione delle proteste in Siria. I 27 sono in proncito di adottare l’embargo sull’import del petrolio siriano, già  deciso dagli Usa, misura che colpirà  duramente il governo e l’economia siriani. La Ue acquista infatti l’88% del greggio siriano e l’Italia sarà  il paese più penalizzato secondo la rivista Down Jones. Circa 55.132 barili – la metà  dei 110.521 quotidianamente esportati dalla Siria lo scorso mese è finito nei porti italiani.
Allo stesso tempo il petrolio siriano è solo una piccola parte degli 1.3 milioni di barili che l’Italia importa ogni giorno, una perdita cui i petrolieri e le autorità  italiane dichiarano di poter far fronte, anche se girano voci che il ritardo nell’adozione dell’embargo da parte della Ue sia anche per permettere all’Italia di rimpiazzare le forniture siriane.
L’export di petrolio e gas costituisce un terzo delle entrate del bilancio siriano e una preziosissima fonte di valuta. La Siria risponderà  «rivolgendo la propria economia ad est», ha detto Assad nell’ultimo discorso, ossia verso India e Cina e, soprattutto, Iran, il potente alleato. Sembra Tehran abbia già  offerto un prestito di 5 miliardi di dollari e il governatore della banca centrale siriana dichiara che 2 miliardi di dollari sono stati già  utilizzati da marzo per stabilizzare la moneta, che si è svalutata ufficialmente solo del 3% nonostante la crisi dell’economia (68 sterline siriane per un euro al cambio ufficiale, 73 al mercato nero). L’esperienza di altri paesi (Iraq, Iran) sottoposti a sanzioni economiche evidenziano l’alto prezzo pagato dalla popolazione civile. Ma alcuni attivisti dell’opposizione affermano che le entrate del petrolio sono usate dal regime per finanziare la repressione militare.
Il governo necessita inoltre di fondi per sostenere gli aumenti salariali e i sussidi concessi per placare la popolazione. L’economia siriana è stata colpita duramente dall’inizio delle proteste, il Fmi stimava prima una crescita e ora una caduta del 5%. La popolazione tuttavia dimostra una incredibile capacità  d’adattamento. «Nella nostra società , finché almeno una persona della famiglia lavora, ci sarà  da mangiare», afferma Manal, una farmacista. «Da marzo spendiamo solo per acquistare cibo», afferma Samir, un commerciante del suq.
Se «la rivoluzione», iniziata dagli strati popolari, sembra stia guadagnando consensi in altri gruppi sociali (ci sono state proteste di medici e avvocati), i grandi mercanti di Damasco e, soprattutto, di Aleppo non hanno ancora deciso di abbandonare Assad. Aleppo, il vero cuore economico del paese, esploso negli scorsi anni grazie al libero commercio la Turchia, non sembra toccata dagli eventi del resto del paese. Il suq brulica di gente, a differenza dell’aria depressa di quello di Damasco. Saed, mercante d’olio, di fronte alle immagini delle proteste a Midan, nel centro della capitale, scuote il capo, mostra simpatia verso i manifestanti ma pensa ai suoi affari. «Per gli aleppini contano i soldi. Solo se la Turchia chiudesse le frontiere e i loro traffici si fermassero scenderebbero in strada», afferma Wasim di Homs. «A Homs invece molti uomini d’affari appoggiano la rivoluzione». Segno che la polarizzazione tra pro e anti Assad ha toccato anche il business.


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