Sindacato Chrysler e Marchionne ai ferri corti
FRANCOFORTE – «Caro Bob, sono le dieci di sera e tra un paio d’ore scade il contratto di lavoro dei dipendenti della Chrysler. Io sono volato da Francoforte per concludere, come eravamo d’accordo. Ma per concludere è necessaria la mia presenza e la tua. Tu non ti sei presentato. Io e te abbiamo fallito». Eccolo l’atto d’accusa di Sergio Marchionne nei confronti di Bob King, leader di quel sindacato dell’auto americano che l’ad del Lingotto aveva indicato fino a ieri come un esempio da seguire nelle relazioni industriali e che invece nella notte ha fatto saltare il tavolo ottenendo un rinvio di una settimana per trattare il nuovo contratto dei dipendenti Chrysler.
Le dieci di sera negli Usa, le 4 del mattino a Francoforte. Esattamente otto ore dopo John Elkann avrebbe ricevuto nello stand Fiat la cancelliera Angela Merkel. Marchionne solo, nel suo ufficio di Detroit, ha mancato due appuntamenti importanti nella stessa giornata: quello con la signora che comanda a Berlino e quello con l’amico Bob che gli ha fatto attraversare l’oceano inutilmente lasciandolo in anticamera perché prima doveva concludere l’accordo contrattuale con la Gm, la più grande delle tre case di Detroit. Marchionne si rammarica per il trattamento subìto: «So che noi siamo la più piccola delle tre case di Detroit, ma non per questo siamo la meno importante. La nostra gente non è meno rilevante».
La mossa di King si spiega con la necessità del sindacato di stabilire con il costruttore più grande le condizioni contrattuali da praticare poi anche negli altri due casi. Marchionne invece sperava di poter trattare direttamente senza dover dipendere dalle concessioni strappate dalla Uaw a Gm: aumenti delle paghe minime (2 dollari) e distribuzione di una parte degli utili ai dipendenti. L’ad italiano sperava insomma di poter dettare la linea nelle relazioni sindacali come, in fondo, ha fatto in questi anni in Italia.
Ma c’è qualcosa in più di una storia di appuntamenti mancati in questa rottura, che probabilmente verrà recuperata. Chrysler e Uaw hanno spostato la scadenza del vecchio accordo e l’ad tornerà negli Usa la prossima settimana. Nella lettera traspare la delusione del manager per la fine di una sorta di età dell’oro, dei tempi eroici del salvataggio della Chrysler quando tutti avevano un interesse comune. Ora invece, anche a Detroit, è arrivato il momento del braccio di ferro e della contrapposizione tra interessi divergenti. «Sono seduto alla mia scrivania e penso ai nostri 26 mila dipendenti che domani andranno a lavorare senza un nuovo contratto», scrive Marchionne che ricorda la sua filosofia delle relazioni industriali: «Abbiamo condiviso l’impegno a creare un nuovo sistema in cui i nostri dipendenti potessero condividere i successi dell’azienda. Questo impegno è il cuore della nuova Chrysler. Per questo abbiamo continuato a investire spendendo più di 4 miliardi di dollari senza attendere l’esito di questa trattativa».
Il rinvio dell’accordo americano non poteva non avere ripercussioni in Italia. «Il sindacato americano ha risanato e ora chiede il conto», commenta il leader della Cisl, Bonanni cogliendo l’occasione per attaccare la Cgil: «Molti in Italia chiedono il conto prima di risanare». «L’antica ricetta di scaricare i costi della ristrutturazione tutti sui lavoratori non regge né in Italia né in America», replica per la Cgil Susanna Camusso. Mentre il fuoco della battaglia sindacale si sposta negli Usa, a Torino il tribunale deposita le motivazioni delle sentenza con cui, il 16 luglio, il giudice ha respinto il ricorso Fiom contro l’accordo separato di Pomigliano imponendo però all’azienda di tenere in fabbrica i rappresenzanti della Cgil. Le organizzazioni firmatarie sono «sicuramente rappresentative» e dunque l’accordo è valido, scrive il giudice ma per lo stesso principio, quello della rappresentantività è «paradossale e ingiustificata» la scelta di escludere dalla fabbrica un’organizzazione rappresentativa come la Fiom.
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