by Sergio Segio | 1 Settembre 2011 7:06
«Alfano ci ha confermato che i saldi della manovra restano invariati, è l’unica cosa certa, qui nessuno sa niente…». Francesco Nucara, repubblicano nel Pdl, lascia la sede di via dell’Umiltà con un pugno di mosche. A tre giorni dall’accordo nella «sala del bunga a bunga» ad Arcore, a Roma sembra di vivere l’8 settembre, con i tedeschi alle porte e gli alleati che non si sa chi siano.
Mentre a Roma il senato attende di conoscere le scelte del governo, i ministri stanno tutti a casa: Berlusconi ad Arcore, Bossi a Gemonio, Tremonti a Lorenzago. Il decreto di agosto, che il premier ha elogiato in tv e dato per chiuso all’insegna dell’equità , è ancora un work in progress. Il risultato è uno solo: «Speriamo che questa sia l’ultima manovra – confessa candido Nucara – noi siamo pessimisti». Il pericolo che le due stangate estive non bastino infatti è quantomai concreto. La maggioranza non sa più che fare nonostante l’unanimità di facciata raggiunta il 12 agosto nel consiglio dei ministri e l’altro ieri ad Arcore. Qualcuno, più realista o più disperato degli altri, getta la spugna: «Inizio a pensare che un governo tecnico sia inevitabile», commenta Cazzola del Pdl.
Anche al Quirinale l’allarme è massimo. Se ne fa interprete in qualche modo il presidente del senato Renato Schifani, che ieri ha convocato nel suo studio i capigruppo di Pdl, Lega e responsabili (Gasparri, Bricolo e Viespoli), il relatore della manovra Azzollini e il governo (il ministro La Russa e i sottosegretari all’Economia Casero e Gentile). L’ordine è uno solo: le modifiche concordate dal governo devono essere presentate quanto prima. Perché i lavori, in commissione Bilancio, procedono a rilento: neanche un voto e tanti stop and go, fino al paradosso di lavorare un giorno intero su due testi del Pd.
«Dal presidente Schifani abbiamo avuto un richiamo a stare nei tempi», spiega al termine del lungo incontro Azzollini. Ma la richiesta è destinata a restare inevasa. Il governo giura che scoprirà le sue carte soltanto oggi entro le 15. Un ritardo che ha fatto slittare di un giorno, a oggi alle 17, anche la conferenza dei capigruppo che dovrà decidere quando la manovra andrà in aula. Doveva sbarcare in aula martedì ma è possibile che slitti di una settimana. La fretta con Schifani cerca di correre ai ripari, in questo caso, coincide con quella che vorrebbero Berlusconi e Napolitano. Il primo, perché sa che restare a bagnomaria con un decreto impopolare come questo è letale per il consenso. Il secondo perché teme l’Armageddon sui mercati.
In assenza di Tremonti, i sottosegretari all’Economia brancolano nel buio. Di sicuro si sa che il governo per ora non toccherà l’Iva né reintrodurrà il contributo di solidarietà per i lavoratori privati. Quest’ultima misura secondo i sondaggi di Arcore è troppo impopolare. Quanto all’Iva, leggendo bene tutte le carte, il suo aumento è già previsto nella delega fiscale su cui Berlusconi in autunno si giocherà le uniche possibilità residue di un colpo d’ala di fronte ai propri elettori.
Oggi alle 9.30 è convocato a Palazzo Chigi un consiglio dei ministri: ufficialmente serve a un decreto delegato sulla riforma della giustizia civile lasciato in sospeso da Alfano. Tutti gli indizi però dicono che sarebbe la sede più idonea a ridiscutere la manovra e magari autorizzare la fiducia. Ma Berlusconi di riaprire il vaso di Pandora non ha alcuna voglia. E così da Palazzo Chigi ribadiscono che la discussione sulla manovra è stata già fatta ad Arcore e niente va più.
In ogni caso, è difficile che il premier se ne occupi di persona: Berlusconi nel pomeriggio volerà a Parigi per la conferenza sulla Libia.
Sta di fatto che mentre i «big» restano lontani dalla capitale, il governo è in mano ai tecnici del Tesoro e alle mediazioni di Calderoli, Sacconi e Alfano, non esattamente un dream team da allarme rosso. A via XX settembre si vocifera che per fare cassa non resta che un nuovo condono fiscale.
Il tempo stringe, l’Europa chiede lumi. Se il dibattito si allunga è inevitabile un voto di fiducia che affidi di nuovo a Giulio Tremonti la scrittura del maxiemendamento finale e dunque la cassaforte della legislatura. Berlusconi vorrebbe evitarlo ma vista da Lorenzago la chiassosa ricreazione di delfini in pectore e ministri in cerca d’autore è quasi finita.
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