SE LA FRAGILITà€ CI FA SENTIRE VIVI
Anticipiamo parte del dialogo tra Borgna e Bonomi contenuto nel libro dal titolo “Elogio della depressione” (Einaudi)
Eugenio BORGNA: L’elogio della fragilità non significa l’elogio della sofferenza che fa parte della fragilità ; ma l’elogio della fragilità vuole solo sottolineare, sia pure radicalizzando il mio discorso (ma se non si scende alla radice delle cose umane nulla, o quasi nulla, di esse si capisce), come nella fragilità , dimensione ineliminabile dalla vita, ci siano valori che danno un senso alla vita: alla vita di ciascuno di noi. L’essere consapevoli di questo, della fragilità come esperienza necessaria, significa accogliere, e rispettare, la fragilità degli altri; senza disconoscerla e senza ferirla. Ma significa anche che, nella fragilità , nella nostra e in quella degli altri, si abbia la percezione del valore della debolezza e della insicurezza che fanno parte della vita e che si contrappongono a ogni forma di onnipotenza e di violenza. Non è forse, questo, il pensiero di san Paolo quando, nella prima lettera ai Corinzi, dice che la debolezza è la nostra forza?
ALDO BONOMI: Mi pare che oggi riusciamo a leggere la fragilità diffusa solo attraverso il potente circuito paura-rancore, mentre ci piacerebbe che essa esprimesse la sua potenza in forme sociali che richiamassero a valori quali la fraternité, la solidarietà , la mutualità , e così via. Ma il discorso pubblico che lavora meglio in questa fase, è quello che letteralmente “lavora” sulla potenza primordiale delle emozioni. L’economia è una sofisticatissima macchina che produce, distribuisce e si autoregola attraverso il management delle emozioni (capitalismo delle emozioni), mentre la forma assunta dalla politica è essenzialmente governo del consenso emotivo (essenza dei populismi).
La fragilità diventa quindi un campo dell’esistenza umana, della vita nuda, che viene trattata in quanto serbatoio emotivo dal quale estrarre valore economico e politico. Quando parlo di psicotizzazione, seguendo l’approccio foucaultiano al disvelamento dei codici attraverso i quali si esercita la disciplina sociale, mi riferisco a questa intima e immediata connessione emotiva tra la personalità dei singoli individui e le dinamiche collettive che regolano la vita economica e politica. Credo che stia qui l’origine di alcuni potenti cortocircuiti come quello che ci porta a pensare di fare inclusione sociale solo con il mercato, oppure di trasformazione dell’arena politica in uno scontro di istanze pre-politiche di cui la fragilità è uno dei giacimenti di materia prima più infiammabile. Dal mio punto di vista ho analizzato le fenomenologie incendiarie della fragilità che diventa rancore e deriva securitaria: quella, per dirla con le parole di Dostoevskij, che tende a rinchiudere il proprio vicino per convincersi del proprio buonsenso. Mi sembra invece che tu abbia tematizzato soprattutto la questione dell’indifferenza che reclude l’individuo in uno spazio mentale sempre più costretto. In questo contesto qual è il significato di quella che chiami «comunità di destino»?
BORGNA: Sì, l’indifferenza è davvero la malattia più crudele e inesorabile della vita psichica, e in essa siamo prigionieri di un deserto della speranza che non consente alcuna reale comunicazione, alcuna sincera relazione, con il mondo delle persone e delle cose. Nella indifferenza siamo immersi in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, con la solitudine creatrice, e che diviene isolamento. Nell’isolamento diveniamo monadi senza porte e senza finestre: negati a qualsiasi slancio altruistico, e solo incentrati sui ghiacciai di un individualismo implacabile, e dilagante. Nella indifferenza si inaridisce, e si spegne, ogni possibile comunità di destino che è invece la cifra tematica, la immagine, la metafora palpitante e viva, di una condizione di vita che rende la vita degna di essere vissuta anche nel dolore e nella sofferenza, nell’angoscia e nella disperazione.
Avviandomi a una preliminare definizione di comunità di destino non potrei se non dire che in essa si vuole tematizzare una visione del mondo, una Weltanschauung, nella quale si esca dalla nostra individualità , dai confini del nostro egoismo, e non si riviva il dolore, la sofferenza altrui, come qualcosa che non ci interessi, come qualcosa che non ci appartenga, come qualcosa che nemmeno sfiori la nostra ragione di vita, ma invece, e sinceramente, come qualcosa che ferisca anche noi: come qualcosa, cioè, che non ci sia estraneo, o indifferente, e nel quale si sia tutti implicati. Insomma, si forma una comunità di destino, una comunità solo visibile agli occhi del cuore, quando ciascuno di noi sappia sentire, e vivere, il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza, dell’altro come se fosse, almeno in parte, anche il nostro destino: il destino di ciascuno di noi. (…)
BONOMI: La tua espressione per cui la comunità di destino è una comunità visibile solo agli occhi del cuore mi intriga perché va oltre il mio ragionare di comunità di cura. Mi stai dicendo che ognuno di noi prima di sentire una tensione collettiva verso la comunità di cura, la comunità operosa o la comunità del rancore, dovrebbe interrogarsi se nelle sue relazioni quotidiane (professionali, familiari, nella scuola, ecc.) sente dentro di sé la condivisione di un destino nella fragilità dell’altro. Mi pare che parlare di destino comune sia affascinante quanto inquietante.
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