Ruoli ribaltati, Gianpi diventa una «vittima»
NAPOLI — La decisione del tribunale di Napoli riapre in maniera clamorosa la partita che si gioca tra magistrati sul ruolo del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Perché la scelta di far cadere l’accusa di estorsione contro Gianpaolo Tarantini e sua moglie Nicla accoglie la tesi dei pubblici ministeri napoletani che avevano preannunciato di volerlo indagare per aver indotto l’indagato a rendere dichiarazioni mendaci. Ma sposta la competenza su Bari, ritenendo che lì sia cominciato il reato, poi perfezionato a partire dal settembre 2010 con la complicità del faccendiere Valter Lavitola che ha provveduto materialmente a versare ai coniugi oltre 20.000 euro al mese e ha fatto da tramite per erogare i 500mila euro chiesti dallo stesso «Gianpi» in un’unica soluzione. E questo spiana la strada a un possibile conflitto tra uffici giudiziari.
Bisognerà attendere le motivazioni che saranno depositate oggi e messe a disposizione dei difensori, ma già appare evidente come il Riesame abbia ritenuto illecita la decisione di Berlusconi di mettere «sotto tutela» Tarantini scegliendo per lui gli avvocati, provvedendo alle spese e cercandogli un lavoro mentre l’imprenditore era ai domiciliari proprio per ordine dei giudici pugliesi che lo avevano arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti. Un «controllo» da parte del premier che serviva — questo dice il collegio partenopeo — ad orientare le scelte processuali di Tarantini e a fargli mantenere la tesi iniziale: «Berlusconi non sapeva che le donne portate alle sue feste erano escort». In realtà le telefonate intercettate nel corso dell’inchiesta barese e depositate la scorsa settimana raccontano una storia ben diversa, avvalorando non solo l’ipotesi che il premier fosse a conoscenza della vera professione della maggior parte delle invitate, ma anche che contribuisse al loro mantenimento.
E adesso bisognerà vedere se i magistrati napoletani accetteranno la trasmissione del fascicolo a Bari, come del resto avevano ipotizzato davanti al Riesame chiedendo di valutare proprio la sussistenza di questo reato previsto dall’articolo 377 bis del codice penale. O se invece cercheranno di mantenere l’indagine, forti anche del fatto che il capo della Procura di Bari Antonio Laudati è sotto inchiesta a Lecce proprio perché sospettato di non aver gestito correttamente il processo nella fase istruttoria. La terza ipotesi è che possa essere, appunto, Lecce ad avere la competenza. Ma questo apre un nuovo fronte con Roma che ha ricevuto le carte dal gip di Napoli la scorsa settimana e sta già procedendo per estorsione. I pubblici ministeri capitolini si adegueranno a quanto disposto dall’ordinanza di ieri notte del Riesame, oppure proseguiranno autonomamente non ritenendo che i due reati siano incompatibili? Vale a dire: sosterranno la tesi che Tarantini ricattava Berlusconi e questi a sua volta gli elargiva denaro e altre utilità per costringerlo a seguire la sua strategia?
Bastano questi interrogativi per capire quanto la vicenda si sia aggrovigliata e quanto possa diventare difficile districarsi in questo intreccio di verifiche che comunque continuano a ruotare intorno a un unico e fondamentale nodo: il vero rapporto che si è sviluppato tra Berlusconi e Tarantini dopo le rivelazioni di Patrizia D’Addario, la donna che per prima — in un’intervista al Corriere della Sera — svelò che cosa accadeva durante le serate organizzate nelle residenze del capo del governo. Di certo la decisione presa dal collegio partenopeo sembra credere alla tesi di Tarantini che aveva sempre detto di aver «soltanto chiesto un aiuto al presidente Berlusconi per avviare una nuova attività imprenditoriale» e fa propria l’istanza degli avvocati Alessandro Diddi, Ivan Filippelli e Piergerardo Santoro che avevano sollecitato la remissione in libertà dello stesso «Gianpi» e di sua moglie Nicla. Di fatto viene loro riconosciuto il ruolo di «vittime» di Berlusconi, ma anche di Lavitola. Del resto è stato proprio Tarantini a raccontare come il faccendiere lo tenesse sempre «sotto pressione» «visto che mi diceva che il Presidente non voleva più vedermi e mi spingeva ad avvalorare la tesi che il mio atteggiamento nel processo di Bari potesse cambiare». Un’affermazione confermata dalle telefonate intercettate durante le quali più volte Lavitola dice a Tarantini: «Per costringerti a patteggiare te lo devo chiedere lui in persona».
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