Rimpatri e respingimenti, le zone d’ombra dell’accordo con Tunisi

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 «Lampedusa, scontri tra migranti e polizia. Un incendio devasta il Cie». Il titolo non è di ieri, ma è l’apertura del sito del Corriere della sera del… 18 febbraio 2009. Quel giorno di due anni e mezzo fa, il centro di identificazione ed espulsione veniva parzialmente distrutto da alcune decine di immigrati tunisini, che protestavano contro l’eventualità  di un rimpatrio coatto. I tunisini venivano poi trasferiti verso altri centri in giro per l’Italia.

Oggi la storia si ripete identica. E non è una coincidenza. Perché il rogo di martedì e gli scontri di ieri sono il risultato deliberato di una precisa scelta, che rappresenta il chiodo fisso del ministro degli interni Roberto Maroni: trasformare Lampedusa nel deposito e centro di rimpatrio degli immigrati irregolari, una specie di no man’s land in Italia ma fuori dall’Italia, una zona di transito permanente da cui non è possibile uscire. Questo era accaduto nel 2009, quando il centro di Contrada Imbriacola – concepito e costruito come luogo di smistamento delle persone arrivate via mare verso altri centri della penisola – veniva trasformato per decreto in centro di identificazione ed espulsione, dove i reclusi potevano soggiornare fino a sei mesi (oggi aumentati a diciotto). Maroni all’epoca lo aveva ripetuto fino alla nausea: faremo i rimpatri direttamente da Lampedusa. Aveva trasformato il centro d’accoglienza in un Cie, scatenando la rabbia sia dei reclusi nordafricani che degli isolani. Il risultato era stato una catena di fughe, scioperi della fame, proteste, fino al rogo del 18 febbraio.
All’epoca il «progetto Lampedusa» era stato poi soppiantato dall’altro «capolavoro» di Maroni: l’accordo sui respingimenti con Gheddafi, che aveva di fatto azzerato gli arrivi in Italia. Tutte le barche intercettate nel canale di Sicilia venivano rispedite indietro, senza identificare gli eventuali richiedenti asilo presenti a bordo e a volte usando la forza (l’Italia è sotto processo alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per uno di questi respingimenti perché citata in giudizio da un gruppo di 13 eritrei e 11 somali).
Le rivolte in Nordafrica hanno fatto saltare – almeno momentaneamente – gli accordi con i paesi transfrontalieri. Sono ricominciate le partenze, soprattutto dalla Tunisia (in Libia il Consiglio nazionale transitorio ha riattivato ancora prima di conquistare Tripoli gli accordi anti-immigrazione con l’Italia firmati dall’odiato Gheddafi).
Dopo la rivoluzione contro Ben Ali, alcune migliaia di cittadini tunisini sono partiti verso l’Italia. L’accordo del 5 aprile scorso firmato a Tunisi tra Maroni e il suo omologo del governo provvisorio Habib Essid ha stabilito che da quel giorno i tunisini non sarebbero più stati accolti. Con un procedimento d’imperio, si stabiliva che chi era arrivato entro quella data avrebbe ottenuto un permesso provvisorio, tutti gli altri sarebbero stati espulsi. Il governo di Tunisi accettava il rimpatrio di un numero limitato di persone – 60 al giorno fino a un massimo di 800, secondo indiscrezioni, perché l’accordo non è mai stato reso pubblico. Ma i rimpatri non hanno mai funzionato del tutto: molti aerei sono rimasti fermi sulle piste; alcuni già  partiti non sono stati autorizzati ad atterrare. In Tunisia, il governo post-rivoluzionario ha una certa difficoltà  a far accettare alla propria opinione pubblica lo stesso accordo che con l’Italia aveva stretto il dittatore Ben Ali. Così Maroni ha deciso di rispolverare il vecchio progetto della discarica Lampedusa. I migranti tunisini sarebbero stati trattenuti lì, finché non si sarebbe riusciti a rimandarli a casa. Nel contempo il Viminale si è mosso sull’altro versante: quello del respingimento via mare. Oggi le navi della guardia di finanza hanno cominciato a riportare indietro i migranti tunisini intercettati nel canale di Sicilia, anche in acque territoriali italiane. Li riconsegnano ai guardiacoste di Tunisi, a cui sono stati cedute ad hoc quattro motovedette nuove fiammanti.
È stato il disegno ottuso di Maroni a portare al disastro dell’altroieri. Perché il Viminale ha visto aumentare il numero dei reclusi nel centro di Imbriacola e non ha fatto nulla. Ha visto che i rimpatri non funzionavano e si è ostinato a trattenere sull’isola 1300 migranti esasperati. E ancora una volta – come nel 2009 – ha abbandonato l’isola a se stessa, immaginando che non fosse territorio italiano, ma solo una sua appendice da utilizzare come deposito permanente di migranti in attesa di rimpatrio. i numeri Sono complessivamente 29 le strutture destinate agli immigrati irregolari presenti in Italia, per un totale di 7.653 posti a disposizione. Dai dati pubblicati sul sito internet del Viminale emerge che di queste 13 sono Centri di identificazione ed espulsione (Cie), così denominati con decreto legge 23 maggio 2008, sono gli ex Centri di permanenza temporanea ed assistenza, hanno un totale di 1.920 posti disponibili e dovrebbero ospitare i migranti per un massimo di 180 giorni complessivi; 7 sono invece Centri di accoglienza (Cda, quello di Bari è anche Cara, mentre quelli di Lampedusa e Cagliari sono anche Centri di primo soccorso e accoglienza) con 4.200 posti, 5 sono i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) che possono ospitare un massimo di 998 immigrati. A questi si aggiungono altri quattro centri, tutti in provincia di Trapani, che sono sia Cda sia Cara, per un totale di 535 posti a disposizione.


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