Rilancio, cambio in corsa o candidatura di Alfano

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ROMA — Tutto resta in sospeso, fino a gennaio. Sarà  quello il momento della scelta, sarà  allora che il Cavaliere dovrà  decidere cosa fare: se tentare cioè di resistere a Palazzo Chigi rilanciandosi con il governo, se accettare il cambio in corsa per il finale di legislatura, o staccare la spina e con un gioco di spariglio puntare alle elezioni, ufficializzando la candidatura di Alfano a premier, forte di un’alleanza con l’Udc. Le tre opzioni restano però sullo sfondo, e c’è più di un motivo se il premier tiene ancora le carte coperte e si mostra determinato ad andare avanti.

È una linea che lo stesso Maroni condivide, e che ha provato a spiegare ieri a Bersani: «Non potete chiedere a Berlusconi di fare un passo indietro, perché è come chiedergli di autocertificare il proprio fallimento, di ritirarsi sotto l’onta del lancio delle monetine. E più insistete, più lui — giustamente — si convince a non recedere». Siccome insistono, il ministro dell’Interno si è fatto l’idea che i Democratici lo fanno apposta, confidando che il Cavaliere resti a Palazzo Chigi, in modo da evitare che — saltando lui — salti l’intero sistema: se così davvero fosse, verrebbe messo a repentaglio il disegno del Pd di arrivare alla guida del governo dopo le urne.

Si capisce dunque perché, paradossalmente, (quasi) tutti nel Palazzo facciano il tifo perché nulla cambi, almeno non ora. In attesa di gennaio. Allora si capirà  la mossa finale di Berlusconi, che vuole prima mettere in ordine i conti dello Stato, regolare i conti con la magistratura, e chiudere i conti con alleati e avversari. E c’è più di un motivo se la «dead line» per il Cavaliere scadrà  a gennaio: intanto perché bisognerà  attendere la sentenza della Consulta sul referendum elettorale, che avrà  un peso nelle sorti della legislatura. E poi perché il pallino — che fino a quel momento rimarrebbe saldamente in mano al premier — passerebbe a Napolitano. A marzo infatti, chiusa la finestra elettorale, senza più l’arma del voto anticipato in mano a Berlusconi, il Colle acquisirebbe un ruolo decisivo.

Non c’è dubbio che già  adesso il capo dello Stato sia determinante in tutti i passaggi politici. Lo s’intuisce dal modo in cui il premier ha strappato a Bossi la promessa di ricomporre lo strappo con Napolitano sulla secessione. «Stai tranquillo», ha detto il Senatur al Cavaliere: «Andrò da lui e gli chiederò scusa». Lo s’intuisce anche da come Berlusconi ha preso tempo sulla nomina del governatore di Bankitalia, nonostante il pressing di Tremonti che insiste perché la scelta ricada su Grilli, «la migliore soluzione per il governo e per l’Italia», secondo il ministro dell’Economia, perché «farebbe da argine ai tecnocrati di Bruxelles». Ieri pomeriggio sembrava che il titolare di via XX settembre avesse fatto breccia sul premier. Ma, salendo al Colle, Berlusconi non si è esposto, lasciando intatte le chance del direttore di Bankitalia Saccomanni, e consapevole di «non poter fare in questo senso uno sgarbo al presidente della Repubblica».

Il rapporto tra Quirinale e Palazzo Chigi è complicato. Sarà  pur vero che nuove tensioni provocherà  la decisione del premier di far approvare in Parlamento alcuni provvedimenti sulla giustizia, tra cui il «processo lungo», con l’intento di evitare la condanna in primo grado per il «caso Mills». Così come sarà  vero anche che l’incontro tra i due ieri è stato a tratti teso, quando si è parlato delle condizioni in cui versa il Paese in questi tempi di crisi. Ma il Cavaliere riconosce la coerenza della linea di Napolitano. Dice per esempio di aver «apprezzato» il modo in cui si sarebbe mosso in questi giorni, opponendo rifiuto a Bersani che avrebbe invitato il presidente della Repubblica a inviare un messaggio alle Camere sulla situazione economica: un gesto che avrebbe potuto acuire le tensioni sui mercati finanziari e arrecare ulteriori danni all’Italia.

Gennaio sarà  il mese decisivo, e per allora Berlusconi dovrà  scegliere tra le opzioni in campo. L’obiettivo, comunque andranno le cose, è quello di fare in modo che l’alleanza di centrodestra possa rafforzarsi con l’Udc: «Con l’Udc, non con il terzo polo». Traduzione: con Casini senza Fini. Ecco cosa ha spinto il Cavaliere ad aprire il dialogo sulla legge elettorale. In attesa di aprire la trattativa sul resto. E che resto… «La conosco la storia del Quirinale», sorrideva ieri il capo dei centristi in Transatlantico: «E conosco la fine che hanno fatto Fanfani, Forlani, Andreotti». Tutti candidati al Colle, tutti gabbati al momento decisivo.

La battuta con cui Casini ha tentato di schermirsi, in realtà  conteneva un messaggio in codice, offerto come chiosa: «Credetemi, sono ormai un ex politico. È ora di fare largo ai giovani: Di Pietro, Vendola…». Nel Pd c’è chi si mangia le mani per l’offensiva referendaria che rischia di spingere l’Udc verso il centrodestra: perché il ritorno al Mattarellum sarebbe esiziale per l’Udc, così come l’attuale legge elettorale consegnerebbe Casini all’ininfluenza nello scontro tra coalizioni, a meno di non schierarsi con Pdl e Lega. Di questo si parlava ieri alla Camera, più che delle sorti di Milanese, appese forse a un filo o forse no, comunque non determinanti per le sorti del governo.

Gennaio sarà  il mese decisivo, per Berlusconi sarà  il momento delle scelte. Per allora il Cavaliere avrà  dovuto sistemare un puzzle complicatissimo, ecco perché deve blindarsi e giocare a carte coperte. Se solo si parlasse oggi di «exit strategy» salterebbe tutto, ma già  Bossi è lì con la clessidra a scandire il tempo: «Il 2013 è troppo distante». È vero, ma (quasi) nessuno al momento ha interesse a dire che il tempo è scaduto.


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