by Sergio Segio | 13 Settembre 2011 6:47
MILANO — Giorgio, Nicola, Fabio, Aurelian, e neppure una breve in cronaca. Ci devono essere altri modi per iniziare un articolo sulla strage dimenticata, ma certe volte la via più banale risulta essere anche la più efficace. Prime ore del pomeriggio, 9 settembre, un giorno come tanti. Giorgio Bonatto, 56 anni, marito, padre e nonno, sale a dieci metri di altezza per ripulire un silos. Fabio Roso, stagionale del servizio forestale, si addentra in un bosco con la sua squadra per tagliare alcuni alberi. Nicola Moratti detto «Sazza» scende dal muletto per controllare che le botti di vino siano in sicurezza.
La fine è nota, anche oggi la media italiana di tre morti quotidiane sul lavoro è stata rispettata. Potremmo andare avanti per pagine intere, fino a comporre un martirologio che non risparmia neppure il Natale. Contando le sei vittime della Pirotecnica Arpinate, nel 2011 siamo a 452 caduti sul lavoro. Certo, si tratta ancora di dati empirici forniti dagli osservatori indipendenti sugli infortuni mortali, il bollettino finale spetta sempre all’Inail, che a ogni luglio stila il suo rapporto sull’anno precedente, al netto delle «avvenute transazioni» tra famiglia e azienda e delle denunce omesse.
Prendiamo un’altra giornata italiana appena trascorsa, prendiamo il 7 settembre. Ad Avezzano muore Aurelian Lucian Moldovan, operaio di 40 anni. Lavorava in un cantiere che ristrutturava un’abitazione privata, vicino all’impalcatura c’erano dei fili dell’alta tensione. Come da formula abituale, «la dinamica dell’incidente è ancora al vaglio degli inquirenti, le cause del decesso sono ancora da chiarire». Anche nel caso di un cadavere senza nome ritrovato nello stesso giorno sul ciglio di una strada al confine tra Basilicata e Puglia, «cittadino di apparente origine nordafricana», trovato stranamente senza documenti di identità in tasca, senza un telefono, senza neppure i vestiti, ci sarebbe da chiarire, anche se le modalità del ritrovamento e tracce di cemento sul petto lasciano supporre che si trattasse di un lavoratore abusivo di qualche cantiere, forse altrettanto abusivo.
Ogni morte bianca è a suo modo esemplare, ognuna di esse lascia un messaggio chiaro. Bonatto e Roso erano entrambi veneti, di una regione che si sta confermando in cima alla classifica degli infortuni sul lavoro. Moratti lavorava vicino a Brescia, in una provincia che è un’anomalia, nel 2010 ha avuto il più alto numero di vittime e quest’anno sembra avviata alla riconferma. Moldovan faceva il muratore come tanti suoi connazionali, e i cittadini romeni rappresentano il 40 per cento degli stranieri morti sui luoghi di lavoro, che a loro volta sono l’11,3% del totale e rappresentano un bacino di lavoro sommerso e in nero che spesso, in vita come in morte, non figura su alcuna statistica ufficiale.
La morte bianca non dimentica nessuno e non lascia tracce, nella memoria e nei gesti degli uomini. Dopo il disastro della Thyssen, in Piemonte il calo delle morti sul lavoro era stato costante per i due anni seguenti. Nel 2011 i morti a Torino sono giù undici, 29 nell’intera regione, uno in più dell’intero 2010: dacci oggi la nostra Thyssen quotidiana. Raffaele Guariniello, pubblico ministero di quella vicenda, è considerato uno spauracchio degli imprenditori italiani. «Le nostre leggi sono ormai in linea con le direttive europee, il vero problema è la loro applicazione. Il fatto che le piccole imprese rappresentino il tessuto connettivo di questo Paese non essere un alibi per nessuno. Se un’azienda a conduzione familiare taglia i costi sull’infortunistica per contenere i costi e massimizzare il guadagno, chi ha organizzato quella catena di lavoro, chi è il committente? L’unica possibile chiave di volta per limitare i danni ci obbliga a puntare su chi detiene i poteri decisionali. Altrimenti, andiamo avanti così, con questi numeri». Ce ne sono alcuni che spiegano bene il nostro ritardo. Il 2001 fu l’anno nero della Germania, che ebbe 601 morti sul lavoro. In Italia furono 1.286. E se nel 2009 l’incidenza tedesca degli infortuni sul lavoro era dell’1,9 per cento ogni centomila occupati, la nostra raggiungeva il 2,5%.
Ma nel luglio di quest’anno le manifestazioni di giubilo per l’annuale rapporto Istat furono così esagerate da far pensare a un esempio di cattiva coscienza da parte della nostra politica. Nel 2010 il numero dei morti sul lavoro era rimasto per la prima volta al di sotto della soglia psicologica delle mille unità . Vincenzo Scudiere, segretario confederale Cgil, non si era unito al sospiro di sollievo collettivo. «Essendo calata in modo sensibile l’occupazione, è fisiologico che siano diminuiti anche gli infortuni. I progressi su prevenzione e sicurezza andrebbero misurati in una fase di crescita occupazionale». O magari letti in controluce, tenendo accanto i dati dei controlli a campione effettuati nel periodo marzo-ottobre 2010 dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Su 19.000 accertamenti ispettivi condotti su aziende edili e agricole del Sud, il 61 e il 45 per cento risultava «irregolare e inadempiente».
I controlli diminuiscono, il lavoro sommerso aumenta. E in mezzo c’è quella lista infinita di nomi. Da una poesia di Carlo Soricelli, metalmeccanico in pensione, titolare di uno di quei documentatissimi Osservatori indipendenti sulle morte bianche: «Il silenzio e la solitudine circondano la mia Fabbrica e tutte le fabbriche d’Italia/Anche il nostro bravo Presidente urla instancabile le morti sul lavoro/ma anche le sue sono urla impotenti/Addio Compagni di fatica, di sogni e d’ideali/Bagnati dalle nostre lacrime riposate in pace».
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