Ore di paura all’ambasciata israeliana

by Sergio Segio | 11 Settembre 2011 7:40

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GERUSALEMME — E adesso? Il settembre nero della diplomazia israeliana — che doveva raggiungere il suo peggio fra dieci giorni con l’assemblea generale dell’Onu e la proclamazione plebiscitaria del nuovo Stato palestinese, che è già  cominciato le settimane scorse col richiamo del rappresentante egiziano a Tel Aviv e con l’espulsione di quello israeliano ad Ankara — si fa d’un nero inaspettato. Quello dei baffi di fuliggine al diciassettesimo piano del palazzo di Giza, dov’è l’ambasciata israeliana assaltata nella notte del Cairo. Della cenere della bandiera con la stella di David, incendiata in strada. Del buio in cui è finita, in poche settimane, la politica estera di Bibi Netanyahu. Un attacco come non se ne vedevano dai tempi di Teheran o di Belgrado: otto ore d’assedio, 4 mila persone con mazze e martelli, un muro di protezione sfondato, tre morti, mille feriti, venti arresti, sei del Mossad salvati dal linciaggio, gli archivi consolari saccheggiati, l’ambasciatore Yitzhak Levanon costretto a fuggire con le famiglie d’altri 80 diplomatici, l’umiliazione del premier di dover chiamare Obama da Gerusalemme, l’inviso Obama, e doverlo poi ringraziare pubblicamente per il suo intervento presso gli egiziani… «Incidente serio, ma siamo impegnati a preservare la pace. È stato evitato il disastro», dice Bibi, ma si riferisce solo al fatto che l’altra notte s’è arrivati a un niente dalla fine della pace fredda, dei trent’anni di Camp David: perché qui nessuno si nasconde che adesso il peggio può arrivare.
Adesso. Cioè già  domani. Con la visita al Cairo del premier turco Recep Erdogan, sulla via per Tunisi e Tripoli. Prima tappa del primo tour d’un leader mondiale nei Paesi della primavera araba. Singolare tempismo: Erdogan, inferocito ex alleato d’Israele, ha appena degradato le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, si propone come riferimento delle nuove democrazie, promette visite a Gaza e scorte armate alle flottiglie pacifiste che ne rompano il blocco, esalta «i 500 mila che al Cairo stanno maledicendo gli ebrei», incoraggia il nuovo quartier generale di Hamas che vuole traslocare da Damasco alle Piramidi. È probabile che venga a offrire una nuova alleanza strategica al dopo-Mubarak.
Sfruttando l’ira popolare per le guardie di frontiera egiziane uccise in agosto, dopo l’attacco terroristico a Eilat. Precipitando Israele in una solitudine d’altri tempi: «Siamo impegnati a preservare la pace con l’Egitto», è il refrain di Netanyahu, assai simile al «vogliamo aggiustare i rapporti» col quale sta gestendo le intemperanze turche.
Non è detto che la giunta del maresciallo Tantawi si schieri con Erdogan, per ora. In questi mesi, nonostante gli attentati al gasdotto che rifornisce Israele e le aperture all’Iran e l’annunciato richiamo dell’ambasciatore a Tel Aviv, il nuovo Egitto ha tenuto aperti canali di collaborazione. Venerdì notte, a muovere le teste di cuoio egiziane, è stato decisivo l’intervento della Casa Bianca, principale sponsor militare del Cairo, sgomenta a guardare questa rissa fra i suoi tre grandi alleati mediorientali. Tantawi promette la corte marziale per chi ha organizzato la devastazione: sostenitori di Mubarak, sostiene la stampa egiziana; Fratelli musulmani, scrivono a Gerusalemme. Il premier Essan Sharaf ha offerto le dimissioni (respinte) per non aver saputo prevedere la notte dei roghi. Ma Israele sta diventando un tabù. E la piazza ribolle: «Mandateli al diavolo! — maledice la madre d’uno degli assalitori uccisi —. Perché l’esercito egiziano protegge loro e ammazza i nostri?».

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