Offerta di Pd e centristi «Indichi il successore» Ma il Cavaliere dice no

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Da settimane andava avanti un tentativo di mediazione che ha visto coinvolti esponenti al più alto livello del Pd e del Terzo Polo. Il messaggio trasmesso al premier non cambiava a seconda dell’interlocutore e faceva intuire un lavoro comune preventivo quanto mai accurato, come gestito da un’accorta e superiore regia: se Berlusconi avesse fatto «un passo indietro», i due partiti di opposizione sarebbero stati pronti a sostenere un «governo di responsabilità  nazionale» guidato — particolare non irrilevante — da una personalità  che sarebbe toccato al Cavaliere indicare.
Berlusconi tuttavia ha respinto la proposta consegnata in fasi diverse a Fedele Confalonieri da Casini ed Enrico Letta. Perché non è stato solo il leader dell’Udc a incontrare il presidente di Mediaset, se è vero che a fine agosto il vicesegretario dei Democratici aveva avuto modo di parlare con il patron del Biscione, ospite del «think net» VeDrò. Come non bastasse, lo scorso fine settimana a Cernobbio, il dirigente del Pd aveva pranzato con il segretario del Pdl Alfano, ed è assai probabile che nel menù politico fosse compresa la stessa pietanza.
Il Cavaliere però ha considerato «irricevibile» l’offerta. Non intende dare il via libera a quello che ha definito un «governo tecnico», ma che in realtà  per i proponenti era un «governo politico»: un esecutivo — a loro modo di vedere — indispensabile per portare a compimento la legislatura e garantire il traghettamento del Paese verso la «terza Repubblica» con una serie di riforme strutturali sul versante economico e su quello istituzionale. Una simile mossa — secondo il Pd e i centristi — avrebbe consentito una transizione morbida e al tempo stesso un allentamento della «pressione» su Berlusconi, fornendo peraltro al premier una garanzia: quella cioè di scegliersi il successore a Palazzo Chigi, e di esercitare così il suo ruolo e la sua capacità  di indirizzo. Era un patto che ricalcava quanto lo stesso Pisanu gli aveva già  proposto.
«Non se ne parla», è stata la risposta: «Li ho mandati tutti a farsi benedire». Motivazioni personali e politiche sono alla base del «niet». Perché il Cavaliere non solo considera «offensiva» l’offerta del salvacondotto giudiziario che ieri Buttiglione ha lanciato dalle colonne di Avvenire, e che cela l’idea dell’amnistia: «Come si permettono. Mi trattano come un fascista ai tempi del Dopoguerra, con Togliatti alla Giustizia. Eppoi comunque non si fermerebbe la caccia all’uomo contro di me da parte della magistratura». Il Cavaliere è convinto che nessuno potrebbe garantirgli un happy ending, dalla salvaguardia delle aziende di famiglia alla stessa incolumità  personale che sente minacciata.
Ma anche se volesse, Berlusconi è persuaso che non potrebbe accedere al patto, prigioniero com’è di se stesso. Perché se solo nel centrodestra notassero un suo minimo segno di cedimento, scatterebbe immediatamente il rompete le righe. L’operazione porterebbe in breve tempo alla disgregazione dell’alleanza e dello stesso Pdl. Senza il controllo quasi militare delle frontiere della coalizione e del suo partito, il premier si ritroverebbe isolato e costretto alla resa prima ancora del compimento del piano. «Non se ne fa nulla», ha fatto sapere di rimando. Il premier continua a ritenere strategica la permanenza a Palazzo Chigi, convinto che «finché siamo qui, siamo al sicuro».
Così, almeno per il momento, si è dissolto il presunto «piano B» che sarebbe stato coltivato tra le file berlusconiane, e che avrebbe previsto un percorso simile a una crisi pilotata: con il presidente del Senato — fedelissimo del Cavaliere — nel ruolo di «esploratore» per conto del Quirinale, e Alfano nel ruolo di successore di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio. Si tratta di un progetto che regge solo sulla carta, che non tiene conto della lealtà  di Schifani verso il premier, e del disegno di rilancio del partito che il segretario del Pdl vuole portare a compimento: un disegno che prevede la stabilità  degli attuali equilibri. Così si spiega il fuoco di sbarramento di Alfano iniziato la scorsa settimana alla festa del Pid, e proseguito alla Summer school del Pdl: «Sono gli elettori e non i soloni di Palazzo a decidere quando comincia e quando finisce la storia di un leader».
E il «leader» intende andare avanti: «Arriveremo al 2013», ha ribadito ieri Berlusconi nel corso dei suoi colloqui, quasi incurante delle ripercussioni per gli scandali sessuali in cui è coinvolto e che rischiano di pregiudicare il suo obiettivo. Ma il Cavaliere è convinto che «non ci saranno problemi», ed è «certo che la maggioranza in Parlamento reggerà ». Il problema è capire se e fino a quando basterà  lo scudo dei numeri alle Camere per resistere. Un interrogativo che il premier dev’essersi posto, se — proiettandosi verso il finale della legislatura — ha messo nel conto l’idea del rimpasto: «Se ci sono le condizioni, lo farò». Più che un piano già  studiato sembra solo un’ipotesi rilanciata per sfuggire alla tenaglia politica in cui si trova. Perché il rimpasto nasconde tante insidie: un passo falso e si trasformerebbe in una crisi di governo.
Dopo la manovra economica al Cavaliere toccherà  manovrare politicamente per restare a Palazzo Chigi. Per riuscirci dice intanto «no» al patto offertogli dal Pd e dall’Udc: «Ma con Casini confido che torneremo ad allearci alle prossime elezioni. Lui lo sa che non mi ricandido più».


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