Nocs, i vertici sapevano degli abusi in caserma

by Sergio Segio | 17 Settembre 2011 6:44

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ROMA – Tre relazioni di servizio, rimaste senza seguito, avvertivano il comando dei Nocs, facendo nomi e cognomi, del clima di violenza che ormai da tempo si respirava all’interno della Caserma Polifunzionale di Spinaceto, quella dell’ormai famigerata “anestesia”, la pratica al confine tra il sadismo e il nonnismo con cui il reparto d’élite della polizia di stato dà  il benvenuto ai suoi agenti scelti.
Documenti inequivocabili, nei quali l’agente che nei giorni scorsi con il suo racconto affidato a Repubblica aveva sollevato il caso, descriveva con precisione i comportamenti borderline del collega Fernando Olivieri, il leader del «gruppo fuori controllo che detta legge all’interno della Caserma», peraltro già  indagato per lesioni e minacce dalla procura di Roma.
Scriveva l’agente, il 12 gennaio del 2007, in una lettera indirizzata «Al Signor comandante del Nocs»: «Chiedo alla S.V. tutela della mia dignità  umana e della mia professionalità , in quanto tale situazione perdura ormai da troppo tempo e non so più cosa fare per arginare comportamenti illegittimi e intollerabili». In quell’occasione, l’agente era stato aggredito verbalmente mentre si trovava a bordo di un furgone trasporto personale sniper, in attesa di andare al poligono di Castel Sant’Elia per una normale esercitazione. Un episodio minore che però faceva seguito a numerosi altri di entità  decisamente più rilevante come quella volta che «l’Olivieri mi colpì con una testata al volto durante un addestramento a Chiusi» o quella in cui, sempre l’Olivieri, «colpì con due pugni al volto l’agente scelto Claudio Casoli, durante l’orario di servizio nei vecchi uffici di Castro Pretorio». Una serie interminabile che si sarebbe protratta fino al dicembre 2010, il giorno in cui, dopo l’ennesimo pestaggio, stavolta subìto in mensa, l’agente decise di cominciare a raccogliere prove in vista di una denuncia in procura, convinto di trovare terreno fertile anche in ragione del fatto che Olivieri aveva avuto numerosi precedenti in tal senso e tra questi una rissa, particolarmente violenta, con un istruttore di judo, Paolo De Carli, che di lì a qualche tempo si sarebbe suicidato in preda ad una crisi depressiva.
Prima di cominciare a raccogliere le prove, però, l’agente si premurò di avvertire nuovamente il «Signor direttore del Nocs» dei comportamenti di Olivieri. «Un collega – scrisse quel giorno l’agente – mi fissava e contemporaneamente mi sorrideva vistosamente (…) Ricambiavo lo sguardo con un saluto e lui inspiegabilmente stizzito dal mio gesto mi insultava ad alta voce con parole testuali: «Che cazzo ti saluti?». Di lì a pochi istanti la situazione degenerò, e ne scaturì il pestaggio (all’agente vennero “refertati” 108 giorni di malattia).
Va detto che le relazioni inviate al comando non furono del tutto ignorate. Di lì a poco infatti, l’agente denunciante venne messo alla porta, trasferito per incompatibilità  ambientale.

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Parla un agente speciale che per trent’anni ha lavorato nel Corpo: “Non confondiamo i riti con i soprusi”
 “Lì dentro comanda un gruppo di violenti sono solo dei Rambo senza più controllo” 
 C’è un sottocomando che tiene in pugno tutto E se qualcuno ha problemi nessuno se ne accorge Capisco che dall’esterno le nostre logiche sembrano folli, ma per noi anche il dolore è un concetto relativo  


ROMA – «D’accordo, vi spiego tutto ma promettetemi una cosa: niente fango. Verità  sì, fango no. Ho dedicato trent’anni ai Nocs, sono lì dall’inizio, il fango non lo potrei sopportare». Il terzo agente speciale che accetta di parlare «dello sfascio» dei Nocs ha una stretta di mano decisamente espressiva. Ha quasi 50 anni, una maglietta attillata con su un gladiatore disegnato, e i deltoidi ipertrofici.
Cominciamo dai morsi, dalle violenze.
«I morsi e le violenze sono due cose diverse. Il morso è un atto di iniziazione. Vuole dire che sei entrato a far parte del gruppo. Chi viene morso è contento, orgoglioso di esserlo. Le vere violenze, psicologiche e fisiche, le subiscono quelli che non vengono morsi: sono emarginati, esclusi dal gruppo, mobbizzati».
Picchiati?
«Dall’esterno non si può capire. Io quando vado in missione metto la mia vita nelle mani del mio compagno. Se non lo reputo all’altezza è un problema, quindi in qualche modo devo farglielo capire che non è il caso che insista a rimanere nei Nocs».
Hanno massacrato in ospedale un agente che si era preso una coltellata in una rissa…
«Sì, se qualcuno non ha reso onore al reparto può aver avuto qualche problema dopo… Lo so, sembrano logiche folli. E in un certo senso lo sono. Ma se volete capire davvero che cosa succede nei Nocs dovete partire dal presupposto che la normalità  la stabilisce la maggioranza che sta al di fuori della caserma, mentre noi siamo una minoranza. Una minoranza di “scocciati”. Del resto se io vi dicessi: dietro questa parete c’è uno con un kalashnicov che appena andate di là  vi spara in faccia, voi ci andreste? Beh, io sì. E allora, la normalità  che cos’è? Tutti i reparti speciali hanno forme analoghe al morso, magari sarebbe meglio un bacio, come la mafia, il morso forse è una cazzata, ho visto gente prendere l’antibiotico per settimane per le infezioni, ma alla fine che differenza fa? Per noi il dolore e la violenza sono concetti relativi: quando ci allenavamo al campo di calcio contro i pugili delle Fiamme Oro, non dei ragazzetti qualunque, quelli erano terrorizzati perché dicevano che li ammazzavamo di botte. Ed era vero. La palla è una scusa per menare, e il morso è solo un battesimo. Tra di noi c’è una fratellanza, che è simile all’amore assoluto. A dire il vero c’era, perché oggi non è più così».
Oggi com’è?
«Oggi i Nocs non sono più una squadra, sono un reparto di Rambo. E la differenza è enorme: io sono grosso e picchio forte. Ma per strada prima o poi uno che picchia più di me lo trovo. Ma se noi siamo in cinque e siamo addestrati come squadra, allora non ci ferma nessuno».
Ma scusi, se lei giustifica “il morso” e tutto quello che implica, perché parla di sfascio dei Nocs?
«Non giustifico, io. Dico solo che ha una logica. Una logica alla quale aderisco, e alla quale aderiscono anche gli ufficiali che si lasciano mordere dagli istruttori che sono dei sottoposti. Io contesto solo l’incapacità  del comando di controllare le dinamiche interne. Dentro la caserma, la situazione è sfuggita di mano da tempo ed esiste ormai un sottocomando che si è imposto con la violenza. Decidono tutto e di fatto tengono in pugno la linea comando. Che ormai non è capace più di capire quello che succede. Come ha dimostrato il suicidio di Paolo Di Carli».
Perché?
«Tempo prima di suicidarsi, Di Carli che era un istruttore di judo aveva fatto a botte con un altro che era istruttore di karatè. Cominciarono in caserma. Li fermarono. Continuarono fuori. Quando li trovarono in un bagno di sangue gli chiesero spiegazioni, e quelli, che sono uomini, dissero: “Niente, ci stavamo allenando”, e la cosa finì lì. Salvo che poi, appena Di Carli ha avuto un problema personale si è ammazzato senza che nessuno si accorgesse che era in difficoltà ».

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