Nel ghetto sconosciuto a due passi da casa

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 RIGNANO (FOGGIA). Al «ghetto» di Rignano s’arriva all’improvviso. Non ci sono cartelli, non ci sono avvertimenti. C’è soltanto la terra. Nera, nerissima, un malloppo di carbone precipitato da un’altezza infinita. D’altra parte, non avrebbero nulla da indicare, se non un gruppetto di case che, disposte di filato, compongono un villaggio bianco e argento, calce più alluminio.

In verità , questo stralcio di vite che il mondo ubica nell’agro di Rignano Garganico si ritrova nelle campagne di San Severo, centro vitivinicolo-granario del foggiano. A definirne l’ubicazione c’ha pensato padre Arcangelo Maira, missionario scalabriniano, di stanza a Siponto, frazione di Manfredonia e viaggiatore per vocazione e solidarietà . Padre Arcangelo ha scartabellato una mole incredibile di documenti, incrociato fonti e studiato fondi, tracciato linee. Infine ha stabilito, con certezza, l’appartenenza cittadina di una lingua di mondo che non ha governanti.
Al ghetto di San Severo padre Arcangelo c’è arrivato da oltre un lustro, primo e unico ad aver deciso di mettere piede in un posto potenzialmente ostile. Vi ha trovato gruppi sparsi di migranti, giunti in Italia con una miriade di grilli, con promesse e speranze, figli del Mediterraneo che non conoscevano che dialetti locali, il francese e raffazzonavano qualche monosillabo in Italiano. Oggi, invece, la comunità  è composta di cinquecento persone, alcune famiglie e soprattutto braccianti. Provengono dal Senegal, dalla Guinea Bissau, dal Congo, dal Burkina Faso, dal Mali.
Fino alla torrida estate di quest’anno, precisamente sino ai primi di agosto, erano pochi coloro i quali, in Puglia come in Italia, erano a conoscenza della sua esistenza. Il «ghetto» è sempre stato un circolo chiuso, strettamente costipato nelle sue appartenenze varie ma accomunate dal patema del viaggio. Il dondolio di una nave, la paura dell’abisso, le notti incerte nella speranza di scorgere le terre italiane. Prima Pantelleria, al massimo Lampedusa, poi via verso il continente, la possibilità  di essere impiegati nei campi. Un mese fa, nel mezzo della stagione del pomodoro, le prime voci, i mormorii normali, l’attenzione che si focalizza su un villaggio di lavoratori della terra, rimasto senz’acqua e con poca possibilità  di sopravvivenza, dove gruppi di volontari foggiani, guidati dal padre scalabriniano, suppliscono all’assenza di acqua potabile portando angurie. Ad un centinaio di chilometri sono in corso i tumulti dei migranti baresi e nel Salento si fa strada una protesta che rischia di sconquassare la pace sociale dei latifondisti.
I migranti di Rignano-San Severo non esplodono. Chiedono di avere accesso all’acqua potabile, per non rischiare la vita, malattie epatiche, dolori lancinanti di stomaco. Grazie alla Regione Puglia, che finanzia una decina di autoclavi, arriva la prima conquista. Nel mezzo della sabbia che vola, mischiandosi con la terra e spazzando i tetti in lamiera delle baracche improvvisate, le cisterne azzurre concorrono ad apportare qualche miglioramento. Assessori e consiglieri fanno a gara ad attribuirsi i meriti. Eppure per tre anni, ovvero dal 2008, da quando Via Capruzzi ha scelto di monitorare le aree a più alta presenza migrante della Puglia per apportarvi aiuti, a Rignano non è arrivato nulla. E nessuno. Per tre anni, il ghetto è stato fuori dalla portata conoscitiva dell’Occidente, relegato a Stato a parte, a non Repubblica.
Vengono montati anche alcuni bagni chimici. Chi con il ghetto ci convive, sa che, prima di quest’estate, i migranti urinavano e defecavano sotto le stelle, tramutando i campi e le terre in latrine a cielo aperte. Ma dopo l’aiuto, cala, di botto, il silenzio. Si acquieta tutto perché finisce la stagione del pomodoro. Pur non volgendo a termine, con essa, l’esistenza dei braccianti. I media sbaraccano i fari, spostati sulle amministrazioni in crisi del Tavoliere. La politica ritorna nei Palazzi a discutere di manovre ed economie, di tagli e riduzioni. Al ghetto, però, la cellula sopravvive, prova a mantenersi in vita. Abbozza una normalità  che, agli occhi degli italiani, degli esterni, dei «non fratelli», pare addirittura folklore. Ma è un velo.
I problemi restano tanti. E pesanti. I soldi guadagnati con la stagione dell’oro rosso, 3 euro a cassone, 10-11 ore di lavoro spacca schiena, finiscono presto. Innanzitutto perché la meccanizzazione agricola riduce i posti. E bisogna sempre sperare che piova. Sulla terra, le macchine faticano a farsi largo. Ma anche persi fra i fumi delle case d’appuntamento, cinque, che puntellano il villaggio. Sono ad uso e consumo dei «residenti». Le ragazze che vi lavorano non bazzicano tutte le statali, restano in loco, sorvegliate e protette da grandi matrone che osservano tutto quanto accade nel villaggio fragile. Il giro, in fondo, rende anche così. Quel che non si vede, o si vede poco, è che, accanto a questi posti, i soli che vendano alcoolici (consumato dai cristiani, i musulmani non possono), dimorano famiglie, le cui donne restano in casa per non confondersi con il resto del genere femminile. I bambini invece, quelli no, escono, corrono, giocano. Parlano italiano come gli italiani e ridono come se tutta questa desolazione e questo caldo d’intorno non fosse che una vita normale, come tante altre. Hanno palloni, tricicli, biciclette, le fanno correre su un vialone in terra battuta. L’unico vialone presente nel ghetto, il principale e solo.
Quello dove s’affacciano un bar che ci dicono essere gestito da un albanese e che ha fuori anche un biliardino. Le case, poi, tranne le masserie, sono buchi di materiali vari ed eventuali, legno più ferro più lamiera. Le reti abbandonate dei letti fungono da finestre, porte abbandonate da battenti. Le antenne paraboliche permettono di raggiungere canali africani e danno un tocco di progresso. Ma in queste vampe roventi ci dormono anche in dieci.
Di fronte, proprio di faccia all’abitato, il Gargano domina il paesaggio. Strozza il fiato in gola, dà  l’idea di essere in un catino, in una bacinella riempita di terra e fango. Poi basta girare l’angolo, fare una decina di chilometri per tornare in Occidente, ad una vita illusa di essere riparata.


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