Nel deserto con il cacciatore di Gheddafi “Lo catturerò”
TRIPOLI. L’ultimo suo “avvistamento” risale a pochi giorni fa. Quando Gheddafi era sicuramente nella zona di Gath, perso da qualche parte in quello splendido scenario di sabbia e di rocce, regno incontrastato dei Tuareg, a centinaia di chilometri a sud ovest di Tripoli, non lontano dal confine col Niger e l’Algeria. A un passo cioè dalla salvezza. Ecco perché scuote la testa infastidito Abdul Aziz Abu Hajar, il Cacciatore, il capo della task force che da mesi sta inutilmente braccando l’ex tiranno. Non è un tipo facile a concedersi alla stampa, Abu Hajar. E non certo per spocchia. Un po’ per pudore, visto il difficile compito, molto perché la sua giornata è pienissima e i suoi dieci tra telefonini e satellitari non smettono mai di squillare. Comanda otto squadre dislocate sul terreno. Piccoli team di venticinque al massimo cinquanta unità , metà uomini dell’intelligence, metà soldati. Perché non c’è solo da localizzare il “rifugio” del ricercato numero uno, ma all’occorrenza saper mettere mano alle armi.
Un piccolo, selezionatissimo esercito, quindi, si sta muovendo tra mille difficoltà sul più ostile dei terreni, il deserto, con un unico grande obiettivo: liberare il paese dall’ingombrante fantasma del dittatore che lo ha tenuto stretto in un pugno di ferro per oltre quarant’anni.
In un’ala del vecchio municipio in stile fascista al centro di Tripoli c’è la centrale operativa da cui Abu Hajar coordina il lavoro dei suoi. Sui quaranta, atletico, inglese perfetto, Abu Hajar non è né un militare né un politico di carriera. Non veste mimetiche, non impugna pistoloni, non si perde in chiacchiere inutili, ha piuttosto l’aria del manager efficiente. Non a caso è il rampollo di una ricca, potente famiglia di commercianti. Buone scuole, viaggi all’estero, ottime relazioni qua e là per il mondo.
Ma alla fine riuscirete a prenderlo? La domanda che tutti gli rivolgono e alla quale lui non si sottrae, anche se ha un attimo di perplessità prima di rispondere uno scontatissimo: «Certo che sì». Una pausa però che la dice lunga su quanto sia arduo mettere la parola fine all’ultimo più importante capitolo di questa guerra di liberazione. Le ragioni per cui Muammar Gheddafi non può sfuggire, per Abu Hajar sono essenzialmente tre. «La prima: fino a quando Lui sarà ancora in circolazione costituirà una minaccia. Reale, ha troppi soldi, e psicologica, la gente ha ancora tanta paura di lui. La seconda: perché non potremo dire di aver veramente vinto, di dare vita a una nuova Libia se non ci saremo definitivamente sbarazzati di Lui. La terza ragione, non meno importante delle altre attiene a una mera questione di giustizia. Deve pagare, visti i gravissimi crimini contro il suo popolo di cui si è macchiato».
Intelligence e tecnologia, le armi a disposizione di Abu Hajar. La Nato gli sta dando una grossa mano nel tentativo di individuare dove si nasconda l’ex raìs. Ma anche la supertecnologia dell’Alleanza atlantica nulla può contro il Ghibli, il vento del deserto che soffia in quelle zone e alza altissime colonne di sabbia che accecano i suoi occhi elettronici. Nemmeno i tanti farneticanti audio messaggi del Colonnello sono serviti a localizzarlo. Registrazioni, fatte chissà dove, e quindi inutilizzabili per stanarlo. «Certo – riconosce con onestà intellettuale Abu Hajar – che la sua ultima partita il raìs la sta giocando benissimo. Si è rintanato in un’area in cui la natura e le distanze sembrano essere decisamente dalla sua parte, ma non è ancora finita».
Con lui non ci dovrebbe essere nessuno dei figli, solo la guardia pretoriana. Non più di trecento uomini, secondo il Cacciatore. Più i Tuareg, senza i quali in quel nulla non si va da nessuna parte. Perché gli “uomini blu” lo stiano spalleggiando, Abu Hajar lo spiega così: «Potrebbero non essere del tutto informati del reale stato delle cose, senza contare la quotidiana guerra di disinformazione dei lealisti che contribuisce a ingarbugliare ancora di più una situazione già ingarbugliata». Ma sono proprio i Tuareg la “speranza” segreta, l’asso nella manica di Abu Hajar e di gran parte del paese. Il Cacciatore non lo dice, ma lascia chiaramente intendere che Gheddafi rischia di diventare un ostaggio, un preziosissimo ostaggio nelle mani dei padroni del deserto. L’intelligence del nuovo corso sta sotterraneamente lavorando in questa direzione. Ma Lui, come lo definisce il Cacciatore che non pronuncia mai il suo nome, non solo è furbo come e più di una volpe, ma può contare su montagne di danaro. Alle brutte quando fiuterà il vento cattivo, tenterà di oltrepassare quel confine che non è poi così lontano che lo separa dalla “vittoria”. Partita ancora apertissima, dunque anche se Abu Hajar continua a ripetere forse più per convincere se stesso che non l’interlocutore: «Lo prenderemo, dobbiamo prenderlo, altrimenti tutto questo sangue versato sarà stato inutile».
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