Napoli, città  bene comune

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È questo il problema di fondo che suscitava Angelo Mastrandrea in un suo articolo comparso sul manifesto del 10 agosto scorso, un problema lì affrontato a partire da una riflessione su Rione Sanità  di Vincenzo Moretti e Cinzia Mazza (Ediesse, Roma, 2011), radiografia narrativa di un quartiere della Napoli post-moderna. Conviene a questo punto riprendere alcuni termini del ragionamento di Mastrandrea centrato sul problema della rappresentazione quotidiana e letteraria della metropoli moderna. Non a caso egli partiva dai problemi di disgregazione sociale, di meticciato sociale e di degrado urbano di uno dei quartieri più antichi di Napoli, per verificare anche qui le trasformazioni delle percezioni soggettive e sociali dei nuovi spazi urbani. L’inconoscibilità  degli spazi urbanistici che esulano dal proprio territorio usuale di residenza e di lavoro, l’estraneità  tra i soggetti e l’assetto urbanistico complessivo della città , sono fenomeni che connotano sempre più il modo di abitare le metropoli post-moderne.
Esiste una specificità  partenopea di tale fenomeno? Esiste, cioè, la necessità  che – come afferma Ermanno Rea citato nell’articolo – si riparta, per Napoli, da una sorta di cartografia del danno sociale, da una micro-geografia politica « vicolo per vicolo, portone per portone» in grado di tracciare una nuova diagnosi rispetto ai mali antichi e attuali della città ? Torniamo all’esempio del rione Sanità  citato da Mastrandrea; situato nel centro antico della città , da tempo per i napoletani sinonimo di quartiere degradato, abitato da strati sociali emarginati, il quartiere Sanità  è il tipico esempio di quelle che si potrebbero denominare delle vere e proprie “falle temporali”, delle scaglie di passato collocate dentro il presente, un fenomeno caratteristico di una città  come Napoli cresciuta su se stessa in modo caotico e casuale, inglobando il passato urbanistico nella metropoli post-moderna e nel saccheggio urbanistico operatone.
In questo senso Napoli mescola la compresenza di funzioni e di classi nello stesso luogo, tipica della città  di antico regime, con la “specializzazione” dei quartieri in base alle classi sociali che vi abitano, tipica della metropoli moderna e credo che una parte dell’inconoscibilità  di Napoli di cui si parlava nell’articolo sia legata a questa particolare storia urbanistica della città . Ciò non significa che si può leggere Napoli solo come una città  antica, incapace di affacciarsi alla post-modernità . A questo proposito si può segnalare un testo uscito recentemente in Francia che meriterebbe una traduzione italiana poiché affronta in maniera originale la collocazione mediterranea di Napoli. Sin dal titolo (Villes invisibles de la Méditerranée: Naples, Alexandrie et Tanger, L’Harmattan, Paris, 2010) Carla Alexia Dodi unisce nel suo testo Napoli ad Alessandria d’Egitto e Tangeri. L’accostamento può apparire abusato e in linea con tutta una retorica su Napoli città  terzo-mondista. L’equivoco è presto fugato facendo attenzione a come sin dal titolo l’autrice menzioni le Città  invisibili di Italo Calvino, bel riferimento letterario e di metodo conoscitivo per individuare in Napoli uno dei prototipi di città  invisibili perfetta, scissa com’è tra una città  solare e mediterranea e una città  invisibile devastata dalla speculazione edilizia, dalla ghettizzazione sociale di interi quartieri, dalla realtà  di anonimia e povertà  urbanistica tipica delle metropoli moderne.
È quanto veniva fuori anche dai lavori di un seminario organizzato assieme a Emma Giammattei all’Università  Federico II e all’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, un seminario intitolato «Scrivere la città » senza nessun voluto riferimento alla napoletanità , anche se i romanzi analizzati erano tutti di autori napoletani contemporanei. L’idea sottesa era che Napoli condividesse con le altre metropoli post-moderne una sorta di perenne stato d’eccezione rispetto alla vivibilità  tradizionale, cosa ancora più evidente in Napoli per la mancanza di una governance capace di attenuare certi fenomeni e di fornire una logica di senso ai cittadini. E se raccontare ciò è compito della letteratura calvinianamente atteggiata a concepire il proprio personale “stare al mondo”, compito della politica è far sì che i soggetti sociali sappiano narrare di nuovo la propria storia, sappiano dare un senso collettivo nuovo all’attuale vacillante immagine della città .
Teoricamente e politicamente interessante mi sembra allora l’ipotesi, cui sta improntando la sua azione amministrativa la giunta De Magistris e Alberto Lucarelli in particolare, di applicare il concetto di bene comune anche alla città , insieme di beni comuni materiali e immateriali. Un progetto che non può realizzarsi dall’alto ma solo con una partecipazione dal basso ed è questa una scommessa anche per la letteratura, almeno quella che non è solo estenuato esercizio calligrafico.


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