by Sergio Segio | 20 Settembre 2011 5:22
CITTA DEL MESSICO. Nude, le mani e i piedi legati, il torace sfondato dai colpi. Sul collo i segni di uno strangolamento, la bocca aperta in una smorfia di dolore e di paura. Marcela Yarce e Rocìo Gonzales Trapaga, 48 anni, giornaliste da 20, sono morte così. I loro corpi sono stati trovati da due ragazzi nel parco di Iztapalapa, periferia popolare a est di Città del Messico. Era il primo settembre scorso. Due mesi fa, i corpi di tre reporter vengono scoperti in una discarica. Il 15 settembre scorso i corpi di un uomo e di una donna vengono appesi come manichini dal ponte di Nuevo Laredo, al confine con il Texas, con un cartello al collo: «Ecco cosa accade a chi scrive e indaga sul narcotraffico. Giornalisti e blogger siete avvertiti. Vi seguiamo e vi controlliamo». La coppia fa parte, assieme a Marcela e Rocìo, dei 74 colleghi assassinati in Messico dal 2000, gli ultimi 20 quest’anno. Non solo qui, in questa metropoli sconfinata del paese più pericoloso al mondo. Ma ad Acapulco, Monterrey, Tijuana, Taumapilas, Nuevo Leòn, alla stessa Ciudad Juarèz, tristemente nota come la culla del femminicidio. Muore chi indaga, muore chi fa parte delle bande nemiche. Muore chi combatte e chi tradisce; chi rifiuta le protezioni, chi si ribella alle estorsioni, chi non paga i riscatti per gli ostaggi sequestrati.
Questo non è più il Messico della musica e dell’allegria, dei nachos e della tequila. È un inferno senza vita: il turismo è calato del 40 per cento. Non ci sono leggi e regole. Perché è un paese in guerra. La guerra dei Narcos. Una guerra che ha provocato una mattanza, oltre 50 mila morti in 4 anni e che tutti, rassegnati, sopportano. A occhi chiusi. Tenendo stretto quello che hanno conquistato, rinunciando a quello che hanno smarrito. Centoundici milioni di messicani resistono come possono. Hanno fatto di tutto: si sono appellati alla giustizia, hanno chiesto protezione, sono scesi disperati in strada sventolando lenzuoli bianchi, hanno occupato il centro della città . Si sono arresi alla realtà .
L’ex presidente Vincente Fox ha promesso, chiesto tempo e fiducia. Il suo successore, Félipe Caldéron, ha fatto peggio: ha lanciato una sfida impossibile ai Cartelli che da dieci anni sconvolgono il paese. Ha scoperto una polizia mal pagata, corrotta e impreparata. Ha cambiato uomini e mezzi e ha schierato sul campo le Forze armate. Una scelta, criticata dagli stessi Usa, che ha solo peggiorato le cose. Il presidente Caldéron ha finito per schierarsi con i meno pericolosi, quelli che hanno tutto da guadagnare da una pace apparente e da un nuovo equilibrio: gli uomini e le donne del Cartello di Sinaloa.
Ci sono in vista le elezioni del 2012. Il leader del Partido de Acciòn nacional (Pan) ha disperato bisogno di recuperare consensi. La tattica ha provocato molti arresti tra le fila dei vincenti; «Los Zetas» hanno reagito con rinnovata violenza. Dieci giorni fa i reparti scelti della Marina messicana sono riusciti a smantellare il loro apparato di comunicazione. Qualcosa di molto sofisticato, che rendeva difficile, se non impossibile, la lotta al narco terrorismo. Ma le cose sono cambiate poco. Chi è finito dentro è stato sostituito da altre leve, in un riciclo infinito. I sette Cartelli, tra alleanze e divisioni, si spartiscono uno dei tre commerci più floridi al mondo. Cocaina, soprattutto, ma anche marijuana, anfetamina, ketamina e da un paio d’anni eroina. In ballo c’è un tesoro di 280 miliardi di dollari da produrre, gestire e trasferire là dove viene richiesto e ben pagato: negli Stati Uniti. Da dieci anni i Cartelli si sono messi in proprio, hanno sostituito i colombiani. La droga non passa più per il Messico, viene prodotta in Messico.
Non si sa chi abbia ucciso Marcela e Rocìo. Lavoravano per Contralìnea, settimanale, come recita il sottotitolo della testata, «de investigaciòn». Il direttore Miguel Badillo, chiuso nel suo ufficio al quarto piano di un palazzo anonimo del centro storico, cede ad un sorriso su un viso terreo: «Posso solo dirti che dopo aver indagato per anni sull’intreccio tra Narcos e alta finanza non solo messicana, Marcela aveva preso in mano l’ufficio delle relazioni pubbliche. Raccoglieva pubblicità . Era brava e rappresentava una delle colonne del giornale. Colpire lei significava colpire le entrate della rivista».
Gli assassini hanno voluto lasciare la loro firma. Torture, violenze e un solo colpo di pistola alla nuca. Tutto porta ancora una volta a «Los Zetas», uno dei Cartelli più feroci e sanguinari dei sette che si spartiscono il bottino della coca. Loro non sprecano proiettili. Perché sono ex militari. Nati come sicari, «Los Zetas» sono sorti da un gruppo di 70 ex sottufficiali appartenenti alle Forze speciali messicane (Gafes). Oggi sono 700. La loro diserzione è stata facile: insidiato da quello di Sinaloa, regione del Pacifico, e dal loro capo Joaquìn Gùzman Loera, detto «el Chapo», l’ultimo narco della vecchia guardia ancora libero, il Cartello del Golfo li ha comprati con 50 mila dollari al mese, il salario di un anno nelle forze armate messicane. La cattura del loro fondatore, l’ex soldato di fanteria Arturo Gùzman Decena, ha cambiato gli equilibri. «Los Zetas» si sono messi in proprio. Sono loro gli autori dei peggiori massacri che hanno insanguinato il Messico negli ultimi sette anni. Compreso l’assalto al Casinò Royale di Monterrey con 52 morti di metà agosto per aver rifiutato la protezione: 10 per cento degli incassi mensili.
Il nuovo capo de «Los Zetas», Heriberto Lazcà no «El Lazca», ha rivendicato l’azione. Nessuno ha mosso un dito. Ma la guerra è già persa. «Los Zetas» sono abili professionisti: conoscono le tecniche di guerriglia, hanno apparati di comunicazione criptati, sono stati addestrati (da agenti stranieri) ad agire contro gli uomini dei Cartelli come oggi agiscono nei confronti dei loro ex compagni. Usano pistole Hkp-7, mitragliatrici G-3 che montano lanciagranate anticarro, fucili da cecchino Remington. Armi che nessun esercito al mondo possiede e che, molto probabilmente, in quella operazione suicida «Fast and furious» orchestrata dalla Dea e dalla Cia per snidare chi guida le fila, hanno finito per ricevere, su un piatto d’argento, dagli stessi americani.
«E’ una sfida persa in partenza», scuote la testa amareggiato lo scrittore messicano Carlos Fuentes. «I Cartelli sono sempre esistiti. Ma oggi è diverso. Troppi gli avvenimenti, le contraddizioni, l’entità della crisi. È impossibile classificare l’attualità ». Marcela e Rocìo cercavano di raccontarla. La guerra tra i Narcos e Caldéron le ha sopraffatte.
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