by Sergio Segio | 22 Settembre 2011 6:02
ROMA — «Voteremo per non far cadere il governo». Umberto Bossi, prima di entrare nella riunione di gruppo, riassume così la posizione leghista. E a ulteriore chiarimento, arriva la dichiarazione del capogruppo della Lega Marco Reguzzoni: «Sulla richiesta di arresto di Marco Milanese diremo no: senza se e senza ma».
Bossi annusa la base leghista, in subbuglio. E non sottovaluta le insofferenze dell’area maroniana, che più volte ha manifestato una propensione ad accettare la richiesta dei magistrati. Per questo con la stampa decide di anteporre la questione politica: la decisione di dire no all’arresto, è il sottotesto delle sue parole, è sofferta e non deriva dalla volontà di difendere la casta dei politici, ma dalla necessità di non affondare il governo.
Durante la riunione di gruppo non c’è alcuna discussione interna. Intervengono prima i due leghisti della Giunta per le autorizzazioni, che illustrano gli aspetti tecnici della questione. Poi parla il Capo: «La gente deve andare in galera solo quando è giudicata. Il carcere preventivo è un’anomalia». E poi: «Non possiamo permetterci di fare cadere il governo ora, in questa situazione economica. Tanto l’inchiesta e il processo vanno avanti lo stesso. Nel governo, comunque, abbiamo un amico, Giulio Tremonti».
Nessuna replica, nessun voto. Unanimità implicita, con Maroni che interviene, ma solo per parlare di immigrazione. A confermare la sintonia tra i due arriva anche una battuta. A Maroni, che rassicura i presenti spiegando che saranno moltiplicati i rimpatri dei tunisini, il Senatur risponde scherzando: «Le tunisine, però, quelle ce le teniamo». Risate.
Fuori, Bossi smentisce dissidi con Maroni o con la base: «Se lo diciamo assieme io e Maroni, vuol dire che abbiamo ragione. La base è sempre con noi, non vi illudete».
In effetti i riflettori ieri erano tutti puntati sul ministro dell’Interno. I suoi deputati (oltre 40 sui 59) erano i più inquieti e molti si erano detti pronti a votare sì, se la linea del partito, come era sembrato, fosse stata la libertà di coscienza. Ma lo stesso Maroni aveva frenato, temendo di essere additato come un sobillatore che mette in discussione l’autorità di Bossi e la sua leadership. Tanto che ieri ha assicurato pubblicamente, a scanso d’equivoci: «La Lega ha sempre una sua posizione e io mi atterrò».
Dichiarazione che, naturalmente, non esclude che nel segreto dell’urna alcuni deputati si dissocino dalla posizione ufficiale e votino sì all’arresto. Ma i dissidenti dovrebbero essere, se ci saranno, in numero esiguo. E comunque di certo inferiore a quelli che, nel voto precedente, contribuirono in modo decisivo a mandare in carcere il deputato Alfonso Papa. In quel caso, peraltro, la Lega si astenne in Giunta e si orientò per il sì all’arresto, lasciando però libertà di coscienza.
Nei giorni scorsi il maroniano sindaco di Verona Flavio Tosi aveva esplicitato la sua posizione favorevole all’arresto (anche se non è deputato), ma nessun altro lo aveva seguito su questa strada. Anzi, prima della riunione di gruppo, un altro maroniano, Giovanni Fava, spiegava: «Anche in caso di libertà di coscienza io voterei contro l’arresto». E Francesco Speroni, europarlamentare venuto a Roma a parlare di suoi progetti di legge a Bossi, aggiunge: «Da avvocato e da esperto, sono uno dei cinque parlamentari europei che si occupa di immunità : non vedo nessuna ragione di arrestare Milanese. Papa è da due mesi e un giorno a Poggioreale e non mi sembra che le indagini abbiano avuto alcun impulso». Tra i leghisti c’è chi, come il ligure Giacomo Chiappori va oltre, dimenticando le antiche posizioni leghiste «forcaiole»: «Togliere l’immunità , sotto la pressione populista, è stato un errore».
Il rientro tra i ranghi di Maroni e dei suoi, naturalmente, si può spiegare in vari modi. Sostenendo, come fa il ministro, che «non esistono i maroniani» e che non c’è nessuna spaccatura nella Lega. Oppure, utilizzando una vecchia frase di Lenin. Come fa un deputato del Pd che li conosce bene, Daniele Marantelli: «La strategia di Maroni è di fare un passo indietro per farne due avanti».
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