by Sergio Segio | 19 Settembre 2011 7:05
PARIGI — La «miseria della politica europea» preoccupa Jacques Delors. Lo inquietano «lo spirito anti-comunitario» di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, l’indecisione a varare soluzioni per la crisi dell’euro che pure sono a portata di mano, il «cinismo crescente» delle opinioni pubbliche che ne deriva.
«La moneta unica è minacciata – dice, ricevendomi nel suo ufficio parigino a Notre Europe, il centro studi che ha fondato e dirige – e bisogna stare molto attenti. Non bisogna permettere che la Grecia esca dall’euro, poiché ci sarebbe un effetto domino. La speculazione non si fermerebbe, toccherebbe all’Italia e alla Spagna. E se l’avventura dell’euro dovesse terminare, tenendo conto degli effetti traumatici che questo avrebbe nei rapporti fra gli Stati, l’Europa si ridurrebbe a un simulacro di mercato unico, se mi permette pieno di buchi come una groviera».
A 86 anni, l’ex presidente della Commissione europea è in ottima forma. Elegante, curato e tagliente come quando trattava da pari a pari con Kohl, Mitterrand e Lady Thatcher. I suoi celebri occhi azzurri leggermente a mandorla, lanciano ancora lampi. I suoi ragionamenti sono cartesiani, come si conviene a chi è stato fra i migliori studenti della Sorbona. Ma se si ostina a «pensare l’Europa», Delors non è un nostalgico. I rimpianti per le occasioni perdute del progetto europeo non sono tanto un’ode al buon tempo che fu, quanto l’invito a trarre le giuste lezioni dal passato per affrontare meglio il futuro. E soprattutto non sono mai disgiunti da proposte concrete.
Presidente, ne ha formulata una per gli eurobond, è così?
«Certo. Mi faccia dire in primo luogo che non si può continuare a chiedere la luna alla Grecia. Si deve essere più comprensivi, conoscendo la storia di quel Paese non si può pensare che il governo greco possa cambiare tutto radicalmente in un solo anno. Io dico che bisogna varare subito il secondo pacchetto di aiuti per la Grecia deciso in luglio e l’aumento a 770 miliardi di euro delle risorse del Fondo europeo di stabilità , per rassicurare gli investitori, intervenire sui mercati secondari dei titoli, ricapitalizzare alcune banche e preparare la strada agli eurobond. Qui non c’è più spirito comunitario. L’Europa è una sintesi tra ragione e cuore, l’unione per essere forti, la solidarietà per vivere insieme…».
Ma è realistico parlarne in questa situazione?
«Se ne deve parlare. L’Europa è stata finora un esempio formidabile nel mondo per la capacità di comprendersi. Ci sono dei cinici che dicono, tanto Germania, Francia e Gran Bretagna non potranno più farsi la guerra. Forse non più come nel ’15-’18 o nel ’39-’45. Ma oggi ci si può fare la guerra in altri modi, con l’economia, la frode fiscale, il dumping sociale, l’immigrazione».
Torniamo agli eurobond…
«Avevo proposto le euro-obbligazioni nel 1993, per finanziare i grandi progetti infrastrutturali. Ma per il debito bisogna essere più prudenti. La proposta ideale sarebbe quella di Romano Prodi, che suggerisce di varare un Fondo finanziario europeo, garantito da scorte auree delle Banche Centrali, in grado di emettere 3 mila miliardi di eurobond. Geniale, ma troppo ambiziosa e difficile da realizzare in questa fase. Io dico invece che occorre utilizzare il Meccanismo Europeo di Stabilità già deciso dai governi, per il quale occorre solo un piccolo emendamento al Trattato. Però bisogna anticiparne il varo, dal 2013 al 2012. Sarebbe questo ad emettere gli eurobond, l’accordo intergovernativo c’è già , avrebbe un capitale di 400 miliardi di euro. L’unico, vero problema sarebbe il maggior costo per i tedeschi, perché le euro-obligazioni avrebbero un rendimento più alto dei Bund. Ma se consideriamo il costo del non far nulla, è sormontabile».
Dove comincia la crisi attuale? E ne usciremo?
«Sì, possiamo superarla, ma con il contributo di tutti. Jean Monnet diceva che “l’Europa è sempre uscita rafforzata dalle sue crisi”. E ne abbiamo avute parecchie dal 1950. Oggi non sono più sicurissimo che sarà il caso. Ma se limitiamo lo sguardo al presente, il mio rimpianto è che nel 1997, al momento di lanciare l’euro, i capi di governo rifiutarono la mia idea, scritta nero su bianco nel rapporto della commissione di cui facevo parte, che accanto al patto di stabilità di bilancio, ci fosse anche un Patto di coordinamento delle politiche economiche. Cambiare la definizione di Patto di Stabilità in Patto di Stabilità e Crescita fu un ridicolo escamotage. Se avessimo avuto nell’Unione monetaria anche il coordinamento economico, attenzione non parlai volutamente di governo economico dell’economia per renderlo accettabile ai tedeschi, ci sarebbe stato più rigore nell’accettare la Grecia, avremmo visto in anticipo una serie di trend come l’aumento dell’indebitamento in Spagna o la situazione bancaria in Irlanda. C’è stato una sorta di benign neglect».
Però ora anche la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy parlano di governo economico dell’eurozona. È la sua rivincita?
«Prendono in giro la gente. Hanno marginalizzato la Commissione, umiliato la presidenza polacca, ostacolato Jean-Claude Juncker. Il loro governo economico è una riunione trimestrale dei capi di governo, un’istanza intergovernativa che non servirebbe a nulla».
Perché intergovernativo per lei è una brutta parola?
«Perché nega il metodo comunitario. Non si può ignorare la storia, ogni volta che l’Europa ha funzionato e progredito è stato quando si è seguita la strada maestra: la Commissione ha il diritto d’iniziativa, compreso quello di ritirare le sue proposte spiegandone le ragioni. Ma sa che quando si trattò di far approvare il programma Erasmus, io dissi alla Thatcher che alla conferenza stampa congiunta avrei dichiarato che lei si opponeva ai programmi di scambio fra gli studenti europei? Cambiò parere. Il metodo comunitario consente di preparare meglio le decisioni. Siamo in 27, non si possono negoziare progetti concreti in Consiglio dei ministri. Il Consiglio è un co-legislatore insieme al Parlamento europeo, ma tocca alla Commissione formulare i progetti, ha la preparazione e il punto di vista giusto».
Secondo l’ex cancelliere Gerhard Schrà¶der, se facessimo oggi un referendum sull’Europa in Germania, gli europeisti uscirebbero sconfitti. Lo dice con rammarico, ma il problema resta: le opinioni pubbliche si allontanano dall’idea d’Europa. È finita la memoria della Guerra, è finita la divisione dell’Europa, è finita la Guerra Fredda. Perché la gente dovrebbe pensare che l’Europa, come diceva Mitterrand, sia ancora il suo avvenire?
«Io faccio sempre l’esempio che al momento di adottare l’euro, il 65% dei tedeschi era contro l’abbandono del marco, poiché quella moneta era parte dell’identità tedesca del Dopoguerra. Ma Helmut Kohl e Theo Waigel convinsero la Germania. È una fortuna che la politica non sia solo la constatazione fredda di quello che le opinioni pubbliche pensano in un dato momento, che ci siano donne e uomini nella storia che hanno il coraggio di guardare lontano. Sul piano generale, riconosco che era più facile per la mia generazione difendere la necessità dell’Europa. Oggi è più complesso. E non solo perché da 10 o 15 siamo passati a 27, forse senza aver ben formulato le condizioni. C’è stata un’evoluzione morale, in primo luogo un’evoluzione dei valori con l’esplosione dell’individualismo contemporaneo. C’è gran dibattito oggi tra i filosofi. Alcuni dicono che l’individualismo fosse forte anche un secolo fa. Io lo contesto. L’individualismo odierno porta le persone a ripiegarsi su se stesse. Ci aggiunga pure, lo dico da laico, il declino dell’influenza delle religioni. La maggioranza dei giovani pensa che noi siamo i soli maestri e giudici del nostro destino. Io credo che questa società stia cominciando a liquefarsi. Ed è una tendenza da combattere: poiché non rinuncio all’idea che noi non siamo soltanto noi stessi, ma siamo anche attraverso gli altri e apparteniamo a collettività e comunità , per volontà e per interdipendenza dei fatti, l’avventura collettiva ha ancora un senso. E cos’è il progetto europeo se non una bellissima avventura collettiva?».
L’altro punto è la globalizzazione. Potranno i Paesi europei reggere da soli le nuove sfide mondiali?
«Non c’è dubbio che la risposta alla mondializzazione deve essere comune. I governi hanno reagito in prima battuta cercando di avvicinarsi all’opinione pubblica. Si è creato un corto-circuito tra nazionale e locale, con una ricerca dell’identità che spesso dà vita a movimenti reazionari e rilancia il pensiero di estrema destra. I partiti populisti crescono in tutta Europa, alcuni governi dicono ai loro popoli: siamo qui per proteggervi. Ma s’immagina se nel 1945, Adenauer, De Gasperi e Schuman avessero detto a tedeschi, italiani e francesi, il nostro scopo è proteggervi?».
Quindi, secondo lei ha ancora senso parlare di Stati Uniti d’Europa?
«Non ho mai usato questo termine. Anche a costo di essere criticato dal mio amico Altiero Spinelli. Io sono un federalista dei piccoli passi. Ecco perché ho usato la formula Federazione degli Stati-nazione. Le nazioni rimangono, ma il processo di decisione non può che essere federale: il metodo comunitario, la partecipazione non demagogica dei Parlamenti nazionali alla formazione del pensiero europeo. Ma Spinelli resta nel mio cuore, fu uno di coloro che più mi aiutarono a riflettere sull’Europa, è ancora un riferimento centrale insieme a Tommaso Padoa-Schioppa, al quale la convinzione federalista non impedì mai di avere argomenti forti, grazie alla sua ineguagliata competenza economica, monetaria e finanziaria».
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