Lo spettro dei tassi al 6% ecco il livello di non ritorno per la nostra montagna di debiti

by Sergio Segio | 14 Settembre 2011 7:51

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ROMA – Sette anni. E’ la vita media del debito pubblico italiano: il tempo che, facendo la media tra titoli a tre mesi, un anno, trent’anni, intercorre fra il momento in cui l’abbiamo emesso e il momento in cui dobbiamo rimborsarlo e rinnovarlo. Ed è uno dei fondamentali positivi della finanza pubblica, su cui insistono le autorità  italiane per sottolineare che la situazione non è compromessa. Sono lontani i primi anni ‘90, quando avevamo il fiato dei mercati sul collo e l’intera, enorme, mole del debito andava rinnovata nell’arco di due-tre anni. Tuttavia, quando si ha, sui libri contabili, uno dei più grandi debiti pubblici del mondo, anche sette anni sono pochi. Su uno stock complessivo di quasi 2 mila miliardi di euro, significano 300 miliardi l’anno. Ed è qui che si nasconde quello che gli economisti chiamano l’effetto-valanga: con gli interessi sui titoli italiani che schizzano all’insù, rischiamo di pagare, senza accorgercene, una cifra pari ad un punto di aumento dell’Iva, ad una patrimoniale, ad un contributo di solidarietà , senza avere neanche la certezza di restare a galla.
Lo spread, cioè il differenziale, fra i rendimenti chiesti per comprare il Bund tedesco a 10 anni e quelli per l’equivalente Btp italiano, era arrivato ieri sera a quota 392, praticamente come nei giorni bui di inizio agosto. Anche se ipnotizza l’attenzione dei mercati e ne rivela la diffidenza, tuttavia, l’innesco della valanga non è nello spread. E’ negli interessi da pagare sui titoli italiani, che ieri sono cresciuti, anche se quelli sui Bund sono rimasti fermi. Il Btp italiano a 10 anni pagava, ieri, un rendimento del 5,71 per cento. Tre mesi fa, il 13 giugno, il rendimento era del 4,75 per cento. Quasi un intero punto in più. Se la pressione non scende e il rendimento non cala, rischiamo di pagare assai caro quel punto.
Quanto? Nei prossimi dodici mesi, fino al 1 settembre 2012, secondo le cifre ufficiali del ministero del Tesoro, vengono a scadenza titoli di vario tipo e di varia durata, per un totale di circa 300 miliardi di euro. A questi bisogna aggiungere i soldi necessari per pagare gli interessi sui quasi 2 mila miliardi di titoli in circolazione, una cifra pari a 70-75 miliardi di euro. Un totale, insomma, non lontano dai 400 miliardi di euro. Un punto in più, in media, sui rendimenti, equivale a 3,8-4 miliardi di euro da sborsare in più: una sorta di tassa occulta del debito pubblico, equivalente, per entità , al poi scomparso contributo di solidarietà  sui super ricchi e non lontano dal gettito dell’aumento previsto, nell’ultima manovra, per l’Iva. Se, fra 12 mesi, non avessimo ritrovato la fiducia dei mercati e i titoli di Stato dovessero offrire ancora quel rendimento, dovremmo pagare questa tassa occulta di circa 4 miliardi di euro, anche per gli anni successivi.
O di più, se la situazione dovesse peggiorare e i rendimenti dovessero salire ancora. La quota di ieri, 5,71 per cento, era già  stata superata a metà  luglio e, poi, all’inizio di agosto. Nel primo caso, l’annuncio di una manovra d’emergenza li aveva fatti scendere. Nel secondo, gli acquisti della Bce sul mercato secondario. Ma, ora, la manovra è in via di approvazione e la Bce sta comprando, senza che i rendimenti smettano di salire. Secondo gli esperti navigatori dei mercati, la quota oltre la quale la situazione diventa fuori controllo e occorre un salvataggio internazionale, è il 7 per cento. Più esattamente, è quando i titoli greci, portoghesi, irlandesi hanno superato quella quota che è stato necessario far scattare il salvataggio. Ma, nel caso italiano, per definire il debito “insostenibile”, basta meno. Con rendimenti vicini al 6 per cento è, infatti, impossibile contenere il rapporto fra debito e prodotto interno lordo. Il costo delle nuove emissioni farebbe progressivamente aumentare il costo medio del debito, che oggi è intorno al 4 per cento. Risultato? il rapporto fra debito e Pil, che oggi è al 120 per cento, continuerebbe ad aumentare. Per, almeno, stabilizzarlo, occorrerebbe che il Pil crescesse alla stessa velocità  del debito, uguagliando quel tasso di interesse. Ma, sommando inflazione e crescita reale, il Pil italiano crescerà , l’anno prossimo, nelle previsioni, meno del 3 per cento. Lontano dagli interessi sul debito. Il buco rischia di allargarsi.

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