Lo scrittore che sogna una nuova Algeria
«Il regime deve andare via, non io. Denuncio islamismo e oppressioni» B oualem Sansal risponde al telefono dalla sua casa a Boumerdès, una città sulla costa a circa 40 chilometri a est di Algeri. È felice del premio assegnatogli dall’Associazione librai tedeschi, il Friedenspreis — Premio della pace, che ogni anno viene consegnato nel giorno di chiusura della Fiera del libro di Francoforte. Fra i premiati degli ultimi anni (Grossman, Magris, Pamuk, Susan Sontag, Habermas) c’è anche un’altra algerina, la scrittrice Assia Djebar, che ottenne il massimo riconoscimento culturale tedesco nel 2000. Nella motivazione si dice che scegliendo Sansal si è voluto «lanciare un segnale ai movimenti democratici del Nordafrica». «È un fatto importante» dice lo scrittore, «soprattutto per la Germania, che durante tutti gli anni 90 non aveva nessuna attenzione per i movimenti democratici in Algeria. Come tutti i Paesi europei, appoggiava le dittature. A proposito delle elezioni del dicembre 1991, che dettero la maggioranza agli islamisti del Fis e che furono annullate, i tedeschi dicevano che si doveva rispettare il risultato del voto. Una posizione in linea di principio giusta, se non fosse che quella vittoria era stata ottenuta con brogli, con la manipolazione delle coscienze, anche con la collaborazione dei servizi segreti che si servivano degli islamisti per screditare e attaccare i democratici. Tutti i Paesi ospitarono in quegli anni membri del Fis, soprattutto la Germania. Solo quando si cominciò a esportare il terrorismo e ci furono attentati in Europa, soltanto allora gli europei si accorsero del pericolo islamista. Ma c’è voluto l’11 settembre perché l’Occidente capisse davvero».
Scrittore, 62 anni (li compirà il 15 ottobre, il giorno prima della cerimonia solenne nella Paulskirche di Francoforte), autore di sei romanzi e numerosi saggi, tutti scritti in francese e pubblicati in Francia da Gallimard, Sansal ha iniziato a scrivere relativamente tardi, nel ’96, con il romanzo Le serment des barbares, un poliziesco che partendo dalle indagini su un delitto denunciava la complicità del potere con gli assassini islamisti. Era, allora, direttore generale del ministero dell’Industria, ma i suoi libri (L’enfant fou de l’arbre creux, 2000, e Dis-moi le paradis, 2003), nonché le sue aperte critiche alla militarizzazione del Paese e alla campagna di arabizzazione gli attirano minacce e intimidazioni. Nel 2003 viene sospeso dal suo incarico e pochi mesi dopo licenziato. Sua moglie, insegnante, perde il lavoro, e il fratello si vede costretto a chiudere la sua attività . Quando, nel 2006, scrive una lettera aperta ai suoi concittadini (Poste restante: Algier) per denunciare l’oppressione militare e l’effetto devastante dell’islamismo, il libro viene proibito e i precedenti romanzi sono ritirati. Sansal, comunque, decide di restare e di continuare a difendere con coraggio e ostinazione — è la motivazione dei giurati del Friedenspreis — «la libertà di espressione» e di opporsi apertamente «a ogni forma di accecamento dottrinario, al terrorismo e al dispotismo politico». Nel 2008, in Francia, esce Il villaggio del tedesco, la sua maggior prova di romanziere, che riceve molti premi e viene tradotto in Italia (Einaudi), Germania, Stati Uniti e Inghilterra. Racconta di due fratelli, Rachel e Malrich, entrambi residenti in Francia, figli di un tedesco che aveva combattuto a fianco degli insorti nella Guerra di liberazione e che poi si è ritirato in un minuscolo villaggio nel sud dell’Algeria. Hans Schiller, questo è il suo nome, viene ucciso da un commando di islamisti che fanno una strage nel villaggio. Il figlio maggiore, Rachel, torna a visitare il paese e scopre il passato del padre, che ha prestato servizio ad Auschwitz e in altri campi di sterminio e poi è riuscito a trovare rifugio nel Nordafrica.
Nell’ultimo romanzo appena pubblicato in Francia, Rue Darwin (la strada del quartiere operaio di Belcourt dove lo stesso Sansal è cresciuto) si legge: «È giunto il tempo di dissotterrare i morti e di guardarli in faccia». Che vuol dire? «Significa che abbiamo il dovere di rileggere la storia recente senza menzogne. Gli algerini vivono in un teatro di falsità . Per l’immaginario algerino la Guerra di liberazione ha un posto centrale. Ma il racconto ufficiale che viene insegnato è totalmente falsato. Nello stesso modo con cui si fanno passare i jihadisti per martiri, quando invece sono degli assassini. In Germania questa ricerca della verità l’hanno fatta, hanno indagato su padri e nonni che furono nazisti. Non hanno creduto alla leggenda che si ripete sempre: era un soldato, doveva obbedire agli ordini (Befehl ist Befehl). Come in tutte le rivoluzioni, anche nella Guerra di liberazione algerina c’erano i romantici appassionati dell’ideale, ma anche i profittatori che volevano danaro e potere. C’erano ladri, criminali. C’erano quelli che facevano il doppio gioco. È un lavoro doloroso riaprire il passato con gli occhi bene aperti, ma senza questo lavoro di ricerca della verità non si può costruire niente. Lo stesso vale per la religione che giustifica con assurde leggende la deriva islamista, fanatica che ha imboccato. Bisogna distruggere questi castelli di falsità ».
Nel Villaggio del tedesco si fa un paragone fra il nazismo e la situazione algerina e di molti Paesi arabi. «Studiando il Terzo Reich, ho visto che là c’erano gli stessi ingredienti che ritrovo nel mio Paese e negli altri regimi arabi. E sono: partito unico, militarizzazione del Paese, lavaggio del cervello, falsificazione della storia, affermazione dell’esistenza di un complotto (i principali colpevoli sono Israele e l’America), il razzismo e l’antisemitismo elevati a dogmi, glorificazione dei martiri e della guida suprema del Paese, onnipresenza della polizia, grandi raduni di massa, progetti faraonici di opere pubbliche (come la terza moschea più grande del mondo costruita dal presidente Bouteflika)».
E poi nel romanzo c’è una lunga trattazione dell’Olocausto, un altro dato certo non gradito ai regimi dei Paesi arabi dove si tende a dire che lo sterminio è stata un’invenzione degli ebrei. «Il negazionismo non è solo appannaggio dei Paesi arabi, certo qui ebreo è sinonimo di nemico, di pericolo. Dagli ebrei proviene ogni male, gli hanno attribuito anche l’attacco alle Twin Towers e in molti ci hanno creduto. Ho ricevuto molte critiche. Se volevo parlare di Olocausto, mi hanno rimproverato, perché non parlare di quello palestinese a opera degli israeliani»?
Il romanzo prende ispirazione da un fatto vero, il tedesco è esistito davvero. «Sì, solo che è morto a più di 90 anni di vecchiaia. Ho trovato così scandaloso, ingiusto, che un aguzzino dei Lager morisse senza pagare per i suoi crimini che ho deciso di farlo morire ammazzato dagli islamisti, fascisti come lui. Anche i due figli son frutto della mia immaginazione, non so se avesse figli o no. Volevo che questi uomini resuscitassero il padre per interrogarlo sul suo passato di cui non sapevano niente. I padri, i genitori non raccontano mai ai figli la verità su ciò che hanno fatto. Come gli Stati, che raccontano una storia falsa. Rachel, il maggiore, conduce una sorta di istruttoria e lascia al fratello il diario della sua investigazione. Malrich, che vive in una banlieue parigina ormai assoggettata al potere di un imam fanatico, si accorge di trovarsi anche lui in una sorta di Lager».
Lei ha perso il lavoro, è oggetto di minacce, i suoi libri sono proibiti, eppure resta in Algeria. Perché? «Ogni mattina mi sveglio e penso: domani parto, vado a vivere in un Paese libero, senza oppressione, senza corruzione, senza il peso insopportabile del fanatismo religioso. È vero, il fatto che i miei libri mi hanno fatto conoscere all’estero rende la mia posizione un po’ meno difficile. Ciononostante sono ancora soggetto a un controllo continuo, della posta, del telefono (anche questa telefonata qualcuno la sta registrando). Ma poi decido di restare. Perché questo è il mio Paese ed è legittimo che io viva qui, sono loro, i militari, gli uomini del regime, che sono illegali. Sono loro che se ne debbono andare non io. Resto per aiutare a educare le coscienze dei giovani che dovranno affrontare il difficile compito di liberarsi dalle menzogne che gli hanno fatto credere. Senza qualcuno che dica loro la verità , sarà impossibile ricostruire questo Paese in modo democratico. Dopo le manifestazioni di questo inverno, ora è tutto calmo, il regime cerca di accontentare tutti: per la prima volta in quarant’anni spazzano le strade qui a Boumerdès, fanno lavorare i disoccupati per impedire loro di scendere in strada a protestare. Cosa succederà ? Bouteflika è molto malato, potrebbe morire o entrare in coma fra breve. Del resto ha già fissato le elezioni presidenziali per il 2012. Lui vorrebbe passare il potere al fratello. Non credo che la gente possa accettarlo. Per questo è importante che l’Europa segua da vicino la situazione del mio Paese, così come degli altri Paesi del Nordafrica e della Siria. Non sarebbe giusto se, una volta ancora, lo sforzo per conquistare la democrazia dovesse fallire».
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