«Nascosto dai tuareg» L’ultima trincea del beduino Gheddafi

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TRIPOLI — L’ultima volta che Muammar Gheddafi è apparso in pubblico sfidava a scacchi Kirsan Ilyumzhinov, presidente della federazione internazionale. Sono passati tre mesi e mezzo e il Colonnello in fuga continua a giocare la sua partita tra le sabbie del deserto: i tuareg sono gli alfieri che difendono il re deposto, il nuovo avversario è un commerciante di tappeti che la rivoluzione ha trasformato in segugio. «Si nasconde nella zona di Ghadames vicino al confine con l’Algeria», dice Hisham Buhagiar all’agenzia Reuters.

«È ancora protetto da una tribù nomade, l’ultima a essergli rimasta vicino: altri clan si sono scontrati con i suoi uomini e ci stanno proponendo una trattativa. Una settimana fa è stato avvistato a Samnu, da lì si è spostato verso la frontiera». La carovana di Gheddafi — ricostruisce — è composta da cento fedelissimi che gli stanno sempre intorno e un anello di difesa più esterno formato da 300-500 mercenari. Quando il convoglio si ferma, i due cerchi si stringono attorno al capo. Buhagiar coordina una squadra speciale di 50 persone e ogni giorno riceve tre o quattro segnalazioni sul cellulare, sono libici che chiamano per aiutare. Vogliono vedere l’ex dittatore arrestato, la taglia di due milioni di dollari non è il premio più grande. Per Hisham il compenso è anche poter tornare alla vita di prima, ai sei negozi che ha aperto a Tripoli in vent’anni di lavoro.

E’ convinto che Saif, il primogenito avuto con la seconda moglie, si trovi a Bani Walid, la città  150 chilometri a sud di Tripoli che gli insorti non riescono a conquistare. I lealisti asserragliati tra i cubi di cemento senza intonaco, in una conca circondata dalle rocce del deserto, sarebbero almeno 1.500. Abdul Rahman Busin, portavoce militare del consiglio nazionale di transizione, conferma solo che il figlio di Gheddafi fosse ancora lì fino a due settimane fa «perché stava negoziando con noi». L’emittente Al Rai ha trasmesso lunedì da Damasco un filmato che mostra Saif — in mimetica, il kalashnikov stretto tra le mani — mentre incita i miliziani. «Questa terra è la terra dei vostri antenati. Non la potete abbandonare». Le immagini sarebbero state girate a Bani Walid il 20 di settembre. Il fratello Mutassim sarebbe invece a Sirte, che in queste settimane è stata presa d’assalto da ovest (dalle brigate di Misurata e della capitale) e da est con le truppe arrivate da Bengasi. Fathi Sherif sta seduto sopra milioni di documenti. Quelli accumulati nelle cantine dagli spioni del regime in questo palazzo che tutti riconoscono a Tripoli ma che nessuno avvicinava mai prima della rivoluzione. Gli agenti della sicurezza interna raccoglievano tutto: messaggi di posta elettronica, sms, foto scattate di nascosto. Per prevenire le rivolte e per ricattare. «Ho visto dossier sui figli del dittatore, sui cugini e sui suoi collaboratori. Chiunque era tenuto sotto controllo». Come Buhagiar di mestiere fa qualcos’altro («ho gestito un distributore di benzina, adesso sono un costruttore») e come Buhagiar si è ritrovato a dare la caccia ai gerarchi di Gheddafi. «Il Colonnello potrebbe essere ovunque. Non escludo che sia nascosto a Tripoli. Probabilmente ha già  un nuovo volto, disegnato da qualche chirurgo, e nessuno lo può riconoscere».

La sua unità  di settanta investigatori è composta da ex detenuti, arrestati durante la ribellione. Con una risata che nasconde il tremore racconta: «Mi hanno preso all’inizio della rivolta e mi hanno tenuto in un container. Ero stato condannato a un colpo di pistola alla testa, sentenza da eseguire il primo di settembre». Fathi dovrebbe essere morto da un mese, se il calendario del regime fosse ancora in vigore.


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