«Mano dura» all’assalto di Città  del Guatemala

by Sergio Segio | 10 Settembre 2011 6:51

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Il Guatemala che domani si reca alle urne per eleggere il presidente e anche i 158 deputati nazionali, i 20 al Parlamento centroamericano e gli oltre 300 sindaci, rischia di essere rappresentato da una delle facce più cupe del suo passato: il 61enne ex-generale Otto Pérez Molina, leader del Partido patriota (di ultradestra), da lui fondato nel 2001. Molina era in carica durante la dittatura militare di Efrain Rios Montt, e coinvolto nei massacri della guerra civile guatemalteca (36 anni di conflitto, terminati con gli accordi di pace del ’96). Secondo alcuni sondaggi, già  al primo turno Molina potrebbe andare oltre il 50%, e governare il paese per quattro anni senza presentarsi al ballottaggio, il 9 novembre. Altri due nomi sono in gioco: il nuovo ricco Manuel Baldizon, del partito Libertad democrata renovada (Lider), e il matematico della destra liberale Eduardo Suger, che corre per Compromiso, Renovacià³n y Orden (Creo).
I tre partiti hanno condotto una campagna elettorale roboante e costosissima. Secondo gli osservatori internazionali, si è ampiamente sforato il tetto dei 48 milioni di quetzal (circa 4,5 milioni di euro) stabilito dal Tribunale supremo per la propaganda. E un elevato numero di omicidi politici – sindacaliste delle maquilas, dirigenti indigene, operai, studenti – è andato a ingrossare la statistica dei morti ammazzati (6-7.000 all’anno).
L’astensione potrebbe però essere l’altra grande protagonista. Nella precedente elezione del 2007, quasi la metà  degli aventi diritto si è astenuta dal voto. Allora, il ballottaggio aveva portato alla presidenza (effettiva nel 2008) Alvaro Colom Caballeros, candidato della Unidad nacional de la esperanza (Une) – un partito con qualche tinta di centrosinistra. Comunque, il primo presidente non di destra da oltre mezzo secolo. Un piccolo segnale su un terreno impervio, come ha subito annunciato il quadro parlamentare all’indomani del voto: l’Une non disponeva di una maggioranza parlamentare, ma solo di 48 deputati sui complessivi 158. Per il 2011, il partito di Colom ha formato una coalizione con la Gran alianza nacional (Gana), formazione conservatrice a cui appartiene l’ex presidente Oscar Berger, considerata un buon viatico per la vittoria della candidata prescelta: Sandra Torres, cinquantunenne imprenditrice del tessile e moglie di Colom, il quale – per legge – non può ripresentarsi.
Se fosse stata eletta, Torres sarebbe stata la prima donna a dirigere il paese. Una sentenza del Tribunale supremo di giustizia le ha però stoppato la corsa. Benché la coppia presidenziale avesse divorziato, tutta la destra aveva infatti suonato la grancassa, appellandosi all’articolo 186 della costituzione, che vieta ai «parenti» del presidente e del vicepresidente in esercizio, di candidarsi. Gli avvocati di Sandra Torres hanno fatto notare come, nel 2003, lo stesso Tribunale supremo non avesse posto veti alla candidatura dell’ex-dittatore golpista Rios Montt, accusato di crimini contro l’umanità . E hanno presentarono ricorso alla Corte centroamericana di giustizia, che deciderà  dopo il voto. Ci sono state proteste e tafferugli. L’Une è però stata tagliata fuori dalla competizione. In un paese in cui una decina di famiglie detiene il 70% della ricchezza, il gioco da battere era il pacchetto di misure sociali (Bolsa solidaria, Mi familia Progresa), abbozzato da Colom (peraltro su indicazione dei finanziatori internazionali, come in Brasile). Annunciando una campagna in difesa del «Guatemala abbandonato», Torres prometteva ai lavoratori miglioramenti attraverso il «buono 15», una specie di mensilità  in più ogni 15 gennaio. Un’idea che Baldizon ha cercato di cavalcare per attirare a sé parte di quell’elettorato.
Nel paese centroamericano, 79esimo per Indice mondiale di povertà  umana, il 56,21% dei quasi 15 milioni di abitanti vive in situazione di estrema indigenza, i tassi di denutrizione e mortalità  infantile sono elevatissimi, la disoccupazione strutturale e la precarietà  senza tutele riguardano il 59,65% della popolazione economicamente attiva. La destra ha però fatto il diavolo a quattro contro la Legge antievasione, e ha impedito che si arrivasse a quella di Sviluppo rurale, che le comunità  contadine chiedono da anni. Nel corso dell’anno, si sono moltiplicate le proteste popolari: contadini, studenti, maestri, lavoratori del settore sanitario.
A loro si rivolge la coalizione di sinistra Frente Amplio, unica a proporre un’alternativa ai poteri forti: sovranità  sulle risorse naturali, riforma agraria, riforma fiscale, ridistribuzione sociale della ricchezza, lotta all’impunità . Il Frente candida alla presidenza l’ex premio Nobel per la pace Rigoberta Menchu, indigena maya, e alla vicepresidenza Anibal Garcia. Uno schema che si ripete, ribaltato, per i conservatori del Creo, che propongono come vicepresidente l’avvocata Laura Reyes, una maya kaqchikel.
Gli indigeni rappresentano il 38,4% degli abitanti, e sono stati determinanti per l’elezione di Colom. A differenza di Bolivia o Ecuador, non hanno però specifiche rappresentanze politiche e, quando serve, vengono tirati per la giacca da tutti i partiti. Nei primi anni ’80, la politica di sterminio dei militari come Molina ha portato alla scomparsa di 10.000 maya. È stato accusato del massacro nella regione indigena di Nebaj. Eppure, nel suo partito – portatore di una feroce politica neoliberista di sfruttamento delle risorse ed espulsione dei nativi dai loro territori – c’è un candidato maya, Carlos Batzin.
Menchu è nell’esecutivo di Winaq (che significa Essere umano integrale), una delle tre principali organizzazioni politiche che partecipano al Frente, un partito di 19.974 aderenti (in prevalenza intellettuali maya) con oltre il 44% di donne. Della coalizione fanno parte anche la Unidad revolucionaria nacional guatemalteca (Unrg) e Alternativa nueva nacion (Ann), partiti formati da ex-guerriglieri dopo gli accordi di pace. È la seconda volta che Menchu corre per la presidenza (nel 2007 ottenne un po’ più del 3%), ma ora la sua candidatura non è andata proprio liscia, dando luogo a qualche defezione significativa nelle comunità  di base. Alcune organizzazioni indigene le rimproverano di essersi fatta cooptare dal governo neoliberista di Oscar Berger, tra il 2004 e il 2008, e criticano le sue posizioni troppo prone alla chiesa cattolica in fatto di aborto e diritti sessuali. Il Frente è comunque fuori dall’intreccio di interessi che emerge da una geografia economica in evoluzione: un outsider senza «padrini» e poche chance di pesare sul quadro politico se non promuovendo mobilitazione popolare.
Dal campo opposto, Molina promette di risolvere i problemi con «mano dura»- il suo soprannome – e ritorno alla pena di morte. La sua campagna elettorale da capogiro è stata soprattutto finanziata dai Castillo Sinibaldi, ovvero la grande impresa Castillo hermanos corporation, uno dei gruppi economici più importanti del paese. Ricardo Castillo Sinibaldi, ex candidato alla vicepresidenza del Pp nel 2007, è attualmente membro onorario del partito. Alejandro Sinibaldi, è ora candidato sindaco di Città  del Guatemala, nonché parte in causa nel gruppo pubblicitario Imagenes urbanas. Grandi finanziatori con solide entrature nel mercato internazionale, potere di controllo sull’informazione, e potere di attingere al ricco filone del narcotraffico. Il Guatemala è diventato un importante punto di snodo per la droga che transita verso gli Usa. Secondo il ministero degli interni, il volume di affari e armi sarebbe di circa 3,5 miliardi di dollari.
Nel corso di una clamorosa indagine sulla morte del vescovo guatemalteco Juan Girardi, il giornalista-scrittore Francisco Goldman ha documentato i traffici e le reponsabilità  dirette del generale Molina. Gerardi venne ucciso nel ’98 dopo aver presentato il rapporto Nunca Mas, uno studio che indica l’esercito come principale responsabile nella scomparsa di circa 200.000 persone durante la guerra civile. «Se il problema in questo paese sono le mafie, l’ultima cosa da fare è eleggere un mafioso», ha dichiarato Goldman.

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