L’isola felice che sente l’assedio

by Sergio Segio | 22 Settembre 2011 6:08

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 La situazione tedesca appare stranamente ambigua: da una parte prosperità  e crescita, una democrazia che funziona e una società  pacifica, nella quale i problemi sono discussi e condivisi da una stampa libera; dall’altra un paesaggio di preoccupazione e dubbi sui problemi finanziari tedeschi e dell’eurozona, sulla direzione dell’Europa e sulla capacità  dell’attuale leadership di affrontare efficacemente tali problemi. Se è difficile riconciliare queste immagini contrastanti, è difficile anche sceglierne una, poiché entrambe sono una descrizione autentica della Germania d’oggi. Per capire la reale situazione tedesca e quella dell’Unione europea e dell’eurozona, vediamo meglio quegli apparenti paradossi.

L’isola felice
Dall’esterno sembrerebbe che la Germania attraversi un periodo di prosperità . Nel 2011 è stato addirittura necessario ridurre l’impressionante tasso di crescita economica – che è rimasto elevato perfino nel mezzo della crisi finanziaria e del debito europeo – perché le aspettative erano cresciute troppo. La Cina continua a essere una fonte inesauribile di domanda per la tecnologia tedesca; la Germania rappresenta più del 40% delle esportazioni dell’Unione europea in Cina. Imprese come la Siemens o come il gruppo di software aziendale Sap hanno fatto registrare indici di crescita a due cifre. Alcune aziende della Germania meridionale cercano disperatamente personale qualificato. E in effetti la percentuale di disoccupati è andata regolarmente diminuendo, altra statistica impressionante nel contesto delle generali avversità  finanziarie. Anche in anni precedenti, quando la disoccupazione era una macchia sull’immagine della Germania, la disoccupazione giovanile non ha mai superato il 10%, ben lontani dai dati drammatici di oltre il 30% di Spagna o Grecia.
Anche nella sfera pubblica, la Germania può in una certa misura sostenere di difendere gli standard che si vanno indebolendo altrove. La sua gamma di quotidiani indipendenti che producono giornalismo di qualità  rappresenta un importante contrappeso allo spirito del tempo populista e riduzionista – e la natura dei media del paese può essere un fattore che contribuisce a spiegare la capacità  della Germania di contenere il populismo. Vista dal mare di problemi europei – deficit colossali, disoccupazione alle stelle, fratture sociali e risorgere del populismo – la Germania può ancora apparire come un’isola felice di sicurezza e prosperità .
Diversi osservatori che condividono questo quadro segnalano il ruolo chiave per il successo del paese svolto dal tessuto sociale e politico che sostiene l’industria tedesca, così diverso da quello dei paesi vicini. La spina dorsale della potenza economica tedesca sta nel Mittelstand (aziende di piccole e medie dimensioni), soprattutto nel settore ad alta tecnologia, dove una moltitudine di piccole imprese vende sui mercati globali prodotti specializzati, la cui competitività  non dipende dal prezzo ma dalla qualità  e dall’innovazione. Queste realtà  rappresentano un settore industriale ancora robusto (a differenza di economie, come quella inglese, dominate dalla finanza); attingono a un sistema educativo che per molto tempo ha potuto produrre un flusso costante di operai e impiegati qualificati, così come di persone preparate ad occupare professioni di élite; sono radicate in un’economia fortemente decentralizzata dove le competenze sono diffuse e l’industria fa parte del tessuto sociale di tante comunità  locali. Da questo punto di vista esiste un nesso forte tra la struttura politica federale e istituzionale tedesca e il suo federalismo economico.
La connessione europea
Eppure è proprio qui che comincia a profilarsi il ritratto alternativo di un paese inquieto, perché all’interno la Germania si sente tutt’altro che un’isola felice. Un’importante parte della preoccupazione sta nell’aumento senza precedenti della disuguaglianza dei redditi e nella paura, ad esso associata e diffusa tra le classi medie, che un’economia più liberalizzata e “flessibile” invece che vantaggiosa possa risultare per loro dannosa.
Un tema particolare è quello della perdita della coesione sociale. E poi i dati sul numero crescente di giovani esclusi dall’educazione superiore, gli alti livelli di analfabetismo, e un acuirsi della disgregazione sociale delle fasce più povere. Questi fenomeni hanno un ovvio costo economico, per riparare una società  sempre più carente. E c’è anche un prezzo politico, perché tra le fasce più svantaggiate sta scomparendo ogni interesse per la politica, insieme alla convinzione che la politica possa migliorare la vita.
Il discorso sulle condizioni interne della Germania assume una dimensione europea. Perché l’alleanza di decenni con il Mittelstand (e la solida classe media cui offriva competenze e occupazione) era la base politica dei partiti della destra moderata tedesca (la Csu in Baviera, oltre alla Cdu); i partiti che hanno governato il paese per la maggior parte dei decenni seguiti al 1949, e che hanno sostenuto «il discorso europeo» in Germania, convincendo gli elettori che la Germania era al centro dell’integrazione europea e che da quel processo avrebbero tratto vantaggio. Quel «discorso europeo» è sempre più difficile da sostenere in un momento in cui l’Unione europea è divisa e incerta sulla direzione strategica da prendere, e in cui (secondo l’istituto demoscopico Allensbach) i tedeschi – al 70% – dichiarano che l’Europa non è più il loro futuro.
In questa prospettiva, la storia del successo tedesco raccontata sopra è illusoria. A un livello più profondo la Germania non ha una vera narrazione su di sé, figuriamoci poi sull’Europa. Di conseguenza non può svolgere il ruolo che un tempo ci si aspettava svolgesse: costruire una visione audace dell’Europa e guidare (o almeno co-guidare) l’Ue.
Una questione secondaria
La deriva europea della Germania ha molte dimensioni. Il dibattito interno sulla crisi della moneta unica – soprattutto l’accesa discussione se emettere e sostenere gli eurobond rappresenti o no una soluzione – è dei più rivelatori. Perché non rivela tanto un impegno genuino per l’Europa quanto un calcolo politico locale: davvero questo significherebbe per i tedeschi la possibilità  di farla finita con l’impegno senza fine a ripianare i debiti degli avidi paesi dell’Europa meridionale, salvando in tal modo se stessi e l’economia europea? (…)
Un paese europeo di primo piano che non ha una visione sociale né un discorso nazionale non può avere né l’una né l’altro per l’Europa. Questo aiuta a capire perché Angela Merkel sia riluttante a fare un qualsiasi passo decisivo sugli eurobond: perché comporterebbe inevitabilmente un’asserzione ferma sulla posizione della Germania in merito a una maggiore integrazione economica e politica in Europa (un processo di cui quello degli eurobond sarebbe uno solo degli elementi). La paralisi della Germania su questi temi cruciali è una tragedia tedesca come anche europea. (…)
Il punto critico
L’ideale politico ispiratore dell’euro era che una valuta europea comune potesse servire come strumento forte per navigare nelle acque turbinose della tempesta finanziaria internazionale e agire in quel contesto come elemento di stabilità  (ho lavorato per Jacques Delors e posso confermare che questo era il suo intento).
Se non ha mai realizzato il suo potenziale, questo è in parte perché la sinistra europea (a cominciare da Tony Blair e dalla sua terza via, continuando con l’agenda 2010 di Gerhard Schrà¶der) ha fatto dell’Unione economica e monetaria e dello stesso euro una preda dei rapaci mercati finanziari, invece di usarlo come strumento di una più forte democrazia europea basata su una concezione dello stato anche sociale, oltre che di mercato.
Questa occasione mancata significa che il concetto originale si è incagliato in questioni complesse per quanto importanti (come per esempio il folle spostamento di redditi dal lavoro al capitale e alla rendita, o i flussi istituzionali che trascuravano l’evasione fiscale endemica e la corruzione in Grecia e altri aspetti moralmente pericolosi). Tale evoluzione, acuita dalla crisi finanziaria del 2008-11, ha fatto dell’euro il capro espiatorio dell’opinione pubblica tedesca. Oggi il capro espiatorio potrebbe essere effettivamente sacrificato, anche perché la cosa sembra molto più facile da fare che non correggere o contenere gli onnipotenti mercati finanziari attraverso una più stretta regolamentazione.
L’unico modo di prevenire tutto ciò è tornare al primato della politica, che tenga a bada la logica estrema del mercato e il facile populismo. Questo farebbe dell’euro lo strumento europeo che da sempre doveva essere e porterebbe al centro dell’agenda la questione di che cosa voglia davvero la Germania dall’Europa e da se stessa. Il punto critico per il futuro dell’Europa e dell’eurozona continua ad essere la Germania, anche a dispetto di se stessa.
* Ulrike Guérot dirige l’ufficio di Berlino dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr). Ha diretto la rappresentanza Ue al German Council on Foreign Relations
(Traduzione di Maria Baiocchi)

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