by Sergio Segio | 10 Settembre 2011 7:16
Le notizie che giungono dalla Somalia sono tremende e sconcertanti insieme. Un’umanità disperata ha lasciato i propri luoghi natii, le proprie comunità , perché si è vista disgregare quella società naturale che lì, più di quanto non sia per noi, è vitale, ossia la famiglia, ed è costretta in lunghe marce verso i campi profughi, marce che segnano i campi di cadaveri.
Il mondo delle istituzioni internazionali delle grandi e medie potenze è inerme, desolatamente impotente perché manca di qualsivoglia volontà effettiva di porre fine a quello che sta delineandosi come un genocidio. Inviamo armati in ogni parte del mondo, affrontiamo le crisi economiche mondiali che da anni costellano il cielo sempre più cupo di un capitalismo che sta mutando il suo volto, affidando i suoi destini alle oligarchie finanziarie e queste stesse oligarchie che oggi hanno nelle loro mani i destini del mondo si dimostrano incapaci di risolvere uno dei problemi più drammatici del nuovo secolo. Un buon inizio, non c’è che dire.
E pure la situazione è di una evidente semplicità . Da quando uno dei leader storici della Somalia, Siad Barre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fu costretto dalle potenze occidentali a lasciare il potere nel 1991, i suoi seguaci iniziarono una guerra civile di una brutalità senza limiti, provocando il primo genocidio somalo, tutto incastonato nei conflitti di potenza post-guerra fredda che si scaricavano sul Corno d’Africa. Questa lotta fratricida condusse la Somalia al suo vero e proprio disfacimento: l’organizzazione delle città , ch’era stata la forza secolare di un antichissimo impero pre-coloniale, si disfece totalmente e con essa lo Stato somalo, in una decomposizione terribile e dolorosissima della nazione. Il fondamentalismo islamico etero-diretto da alcune grandi e medie potenze del Golfo ha oggi disfatto il resto, unitamente all’intervento economicamente e socialmente devastante di un capitalismo finanziario di rapina, che ha distorto ogni ragione di scambio tra popolazioni locali e mercato mondiale, con un aggravamento della siccità , della fame, della scarsità dei raccolti.
L’attuale presidente della Somalia, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, ha, qualche giorno or sono, incontrato in una atmosfera spettrale e allucinante i delegati dell’Onu e ha loro parlato della sua road-map per portare il Paese — in un anno! — a nuove elezioni, così da formare un governo di transizione per porre fine al disastro in corso. Non un parola, tuttavia, né del presidente, né dei delegati, sulle misure da porre in atto per rimediare alla biblica situazione. La Storia non ha insegnato nulla né alle élite locali né all’Occidente. Il governo attuale è il prodotto di una lunga transizione verso la catastrofe seguita all’intervento Usa compiuto dopo la caduta di Barre per cacciare i militanti islamici dell’epoca. Ma essi oggi sono stati rimpiazzati dalla setta Al Shabaab, che dal 2007 combatte con armi modernissime contro il governo centrale controllando larghe aree della Somalia centrale e del Sud, impegnando in operazioni di contenimento ben 6.000 African Union Peacekeeping Troops.
Senza risultato alcuno: la sharia è applicato ovunque i militanti giungono e gli aiuti umanitari vengono requisiti e le comunità che li ricevono sterminate. Le uniche notizie positive non vengono né dall’Onu né dalle forze governative, ma dalla volontà e dalla capacità ancora esistente delle comunità locali di rispondere alla crisi. È di questi giorni la notizia di un’intesa tra Mohamed Ahmed Alin, presidente dello Stato federale del Galmudug, e Abdirahman Mohamed Mohamud Farole, presidente dello Stato del Puntland, accordo che ha come fine quello di pacificare i conflitti locali, disarmare i ribelli settari e porre fine al genocidio per fame e per sete che le potenze occidentali sono incapaci di affrontare, nonostante abbiano costruito, in questi anni, altari al diritto umanitario d’intervento, seguendo in realtà la mappa degli interessi di potenza a seconda dei rapporti di forza.
Ma solo l’attività diretta delle popolazioni locali, può salvarle: dalla terribile esperienza somala emerge sempre più la consapevolezza che tutti i paradigmi su cui sono state fondate le politiche d’intervento esterno nelle situazioni di crisi vanno profondamente rivisti e abbandonati. Solo così alla crisi economica mondiale non si aggiungerà una crisi morale dell’Occidente ancor più distruttiva di quella del capitalismo finanziario.
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