by Sergio Segio | 26 Settembre 2011 6:14
ROMA — Uno degli argomenti con cui a Maastricht la Gran Bretagna rifiutò di aderire all’euro, fu che non si poteva creare una moneta unica senza avere una politica fiscale comune. E poiché prima o poi si sarebbe giunti a quello snodo, sarebbe stato un passo impossibile per Londra, implicando il sacrificio di istituzioni nazionali sovrane, qualcosa che nessun governo di Sua Maestà potrebbe neppure immaginarsi.
«Ridotto all’osso è questo il problema che abbiamo di fronte adesso: l’esistenza dell’euro è in gioco, ma con essa è in gioco la natura stessa dell’Unione Europea. David Cameron ha avuto il merito di aver detto con chiarezza ai partner che finora la Gran Bretagna in Europa ha viaggiato nella corsia di sorpasso, ma guidando il più lentamente possibile e ostacolando il traffico. Ora invece Londra è disposta a togliersi dalla corsia veloce e dar via libera a chi vuole correre in avanti verso la logica conseguenza della moneta unica. Noi non ne saremo parte. Non è un atto di tradimento, è stata sempre la nostra posizione. Ma attenzione, se questo avviene, dovremo fermarci e ridefinire cosa vogliamo che sia l’Unione. Decidere se sarà un mercato unico con uno sforzo di coordinamento delle politiche da parte dei governi, ovvero un nocciolo duro di Paesi con una moneta e una politica fiscale, più un mercato unico con altri Paesi intorno».
Chris Patten è il più filo-europeo dei politici inglesi. Oggi rettore dell’Università di Oxford e da qualche mese anche presidente della Bbc, Lord Patten of Barnes ha legato il suo nome a tutti i «momenti fatali» della recente storia britannica. Presidente del partito conservatore, fu l’architetto della quarta vittoria elettorale consecutiva dei Tories alle elezioni del 1992, che confermarono John Major a Downing Street. Nel 1997, ultimo governatore di Hong Kong, consegnò l’enclave ai cinesi, in una storica cerimonia che segnò la fine ufficiale dell’avventura coloniale britannica. Dal 1999 al 2004 è stato commissario europeo, sotto la presidenza di Romano Prodi.
A Roma per il Convegno di Pontignano su «Democrazia e Malcontento», organizzato dall’Ambasciata inglese in Italia e dal British Council, Patten non contesta che ci siano ragioni forti per sostenere la necessità di un’Europa più coesa sul piano economico e politico: «Ma non voglio vedere un progetto straordinario come quello europeo, messo a rischio da attese irrealistiche».
E’ irrealistico aspettarsi che la Germania, dopo aver beneficiato in modo incontestabile della creazione del mercato e della moneta unica, mostri più solidarietà verso i partner in difficoltà ?
«Io credo che ci sia un problema democratico di fondo. Una ragione della riluttanza tedesca a mettere mano al portafoglio a pagare per le debolezze di alcuni Paesi del Sud Europa, sono le pressioni dell’opinione pubblica. Sarebbe in grado il governo di far passare quelle misure al Bundestag? Non si può forzare un argomento sopra le democrazie nazionali. E’ vero, l’export tedesco si è avvantaggiato molto dell’euro, la Germania esporta verso l’Eurozona 9 volte più che verso la Cina ed è sempre stata al cuore del progetto europeo. Ma detto tutto ciò, è anche vero che i contribuenti tedeschi sono molto riluttanti a vedere i loro soldi spesi in Paesi che non hanno saputo ridurre il loro ritardo di competitività col resto dell’Europa, mentre Berlino faceva riforme dolorose per ridurre il costo del lavoro e pagare la riunificazione. Se fossi un politico tedesco sarei in difficoltà a spiegarlo ai miei elettori. Non penso che i tedeschi debbano essere lapidati per non voler firmare assegni più sostanziosi».
Ma allora qual è a suo avviso la forma realistica e accettabile del progetto europeo?
«Penso che abbiamo bisogno di un mercato unico ancora più approfondito e forte, che dobbiamo agire con una sola voce nelle istituzioni monetarie internazionali nominando un unico rappresentante europeo nel Fondo Monetario e alla Banca Mondiale, ampliare alcune politiche comuni a cominciare dall’ambiente. E naturalmente, chi intende viaggiare a velocità superiore nella moneta unica dev’essere incoraggiato a farlo. Ma non dobbiamo nascondere le divergenze dietro una finzione, dicendo che tutto andrà bene perché crediamo nel destino politico dell’Europa».
Condannati alle due velocità ?
«Esistono nei fatti. Guardi la Grecia. Oggi Anna Diamantopoulou, ministro greco della Pubblica istruzione e mia ex collega a Bruxelles, una persona molto competente, ci ha spiegato che ha dovuto tagliare il suo bilancio del 25%. Significa tra l’altro chiudere 2 mila scuole da un giorno all’altro. E’ un prezzo assurdo. Ma basterà a chiudere il gap di competitività tra Grecia e Germania? No. Ogni tanto chiediamo agli altri di fare cose che non faremmo a noi stessi. Vede, la cosa straordinaria successa nella zona euro da quando è stata creata, è che invece di più convergenza, si sono registrate più divergenze».
Ma non è che il suo Paese continua a muoversi lungo le linee dell’equilibrio del potere in Europa, ostacolando la formazione di una forte aggregazione continentale? Come se dalla Pace di Westfalia del 1648 ad oggi fosse cambiato poco o nulla?
«Sicuramente siamo tutti vittime della nostra storia. Ci sono ancora politici britannici secondo cui la Gran Bretagna è parte dell’Europa ma non è in Europa. Poi c’è la retorica del migliore amico degli Stati Uniti. Ma la verità è che non conteremmo così tanto per gli Usa se non fossimo parte dell’Unione Europea. Allo stesso tempo siamo nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, abbiamo una difesa forte, abbiamo un soft power ancora potente, come il World Service della Bbc, la nostre università , il British Council. Ma dove abbiamo difficoltà , culturalmente e politicamente, è nell’essere abbastanza prosaici: quando la gente parla in termini vaghi di destino politico, spiegando come si arriva da A a Z, noi diciamo “alt, vediamo prima di arrivare da A a B”. Secondo me siamo sospettosi di ogni cessione di potere senza responsabilità . Per, esempio non crediamo che il Parlamento europeo sia un controllore adeguato della politica europea, né avrà mai la robustezza dei nostri Parlamenti nazionali».
Lei sembra molto scettico sulle istituzioni internazionali, sulla cosiddetta governance mondiale…
«No. Io dico che questo è il cuore del problema di fronte alla scienza politica moderna. Sappiamo che gli Stati-nazione si devono misurare con problemi che non sono più in grado di risolvere da soli. Abbiamo confini, bandiere, inni nazionali. Ma le epidemie, l’immigrazione, la criminalità organizzata, le droghe, i cambiamenti climatici chiedono risposte globali e transnazionali. Solo che quando creiamo istituzioni internazionali adatte ad affrontarli, non ispirano mai la stessa lealtà e autorità di quelle nazionali. L’Onu negli Usa è visto come la Commissione europea in Gran Bretagna: nessuno dei due è considerato parte delle rispettive culture politiche nazionali. Quando le cose non funzionano i governi nazionali se la prendono con le istituzioni globali. Eppure ci dobbiamo provare».
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