Liberate Rachid Nini, prigioniero d’opinione

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Rachid Nini, fondatore, azionista e direttore dell’importante quotidiano marocchino al-Massae, è stato arrestato il 28 aprile del 2011 e condannato il 9 giugno a un anno di prigione e al pagamento di 1.000 dirham (88 euro): per «disinformazione», per «attentato alle istituzioni» e per aver arrecato pregiudizio a delle «personalità  pubbliche». I suoi articoli avrebbero anche arrecato danno «alla sicurezza e all’integrità  della nazione e dei suoi cittadini», in base agli articoli 263, 264 e 266 del codice penale marocchino.

Secondo la Federazione della stampa e l’organizzazione Reporters sans frontières (Rsf), il giornalista avrebbe invece dato fastidio con i suoi articoli contro la corruzione nelle cerchie più vicine al re. Soprattutto, avrebbe pestato i piedi al responsabile del partito Autenticità  e modernità , Fouad Ali El-Himma. Di più: avrebbe denunciato l’uso di tortura nelle carceri, invitato le autorità  ad abrogare la legge antiterrorista e anche chiamato in causa Abdellatif Hammouchi, capo della Direzione generale della sorveglianza sul territorio (i servizi segreti). Una delle campagne del giornalista è stata quella per la chiusura della prigione segreta di Témara, una richiesta ignorata dalle autorità  marocchine, che hanno sempre negato che all’interno di quel carcere vengano violati quotidianamente i diritti umani.
A giugno, Rsf ha anche fatto domanda di visita al procuratore del re, ma ha ottenuto un rifiuto, ufficialmente per vizio di forma. Una seconda domanda è ancora in attesa di risposta.
La difesa di Nini e il folto gruppo di giornalisti presenti al processo hanno denunciato l’indisponibilità  della Corte, i continui rinvii delle udienze e i reiterati rifiuti di concedere la libertà  provvisoria. Ieri, si è svolta una nuova udienza del processo di appello. Gli avvocati hanno presentato una nuova richiesta di libertà , ma senza alcun ottimismo. Il processo è stato nuovamente rinviato all’11 ottobre.
Il 13 giugno, Nini ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione, chiedendo di potersi recare alla moschea per pregare, che gli venissero fornite carta e penna e la possibilità  di contattare telefonicamente la famiglia. A tutt’oggi, senza esito. Dalla prigione di Okasha, a Casablanca, in cui si trova, il giornalista denuncia le continue angherie dei secondini: perquisizioni costanti e il ripetuto sequestro dei suoi effetti personali.
Anche Amnesty international ha lanciato un appello per la liberazione del giornalista che, a dispetto delle accuse, non ha mai assunto verso il governo posizioni intransigenti. Fino all’inizio delle primavere arabe, le sue critiche non miravano a mettere in causa la monarchia, ma solo il suo cattivo funzionamento. Ebbe anche una condanna (poi sospesa) per una campagna omofoba. Dopo l’imponente manifestazione del 20 febbraio, la sua voce si è unita però a quelle che chiedono riforme e apertura.
Capofila nella campagna per la liberazione di Nini è la casa editrice Mesogea, che ha pubblicato il suo Diario di un clandestino: un racconto sui tre anni da migrante irregolare vissuti in Spagna dal giornalista (classe 1970). Rientrato in patria, Rachid Nini lavora per il quotidiano al-Sabab e per il canale televisivo M2. Nel 2006, insieme ad altri tre colleghi, si avventura nel lancio di un nuovo quotidiano, al-Massae, che in poco tempo diventa il quotidiano più letto del Marocco.

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Marocco Giornalista e scrittore, ha pestato i piedi al potere e ai servizi segreti denunciando la corruzione e le torture nella prigione segreta di Témara. Ora sta scontando un anno di carcere duro
Khalid Soufiani, l’avvocato
«È un processo contro la libertà  di stampa», dice il legale del giornalista – detenuto da aprile e privato di carta e penna – che ieri ha presentato una nuova richiesta di scarcerazione

 «Rachid Nini è un prigioniero di coscienza detenuto illegalmente». Non ha dubbi l’avvocato Khalid Soufian, che coordina il collegio difensivo del giornalista di Al-Massae. Soufian è un nome di peso. Ex segretario generale del Congresso panarabo, è stato uno dei legali di Saddam Hussein, ora è in prima fila nella difesa dei palestinesi nel Comitato giuridico internazionale che persegue i crimini di guerra commessi dal governo israeliano. L’abbiamo raggiunto al telefono dopo l’udienza d’appello, che si è svolta ieri a Casablanca.

Com’è andata ieri?
Abbiamo presentato una nuova domanda di scarcerazione, la Corte si è presa tempo per decidere, ci sarà  una nuova udienza l’11 ottobre. Intanto il mio assistito resta in carcere. Una detenzione illegale e un pericolo per tutta la libertà  di informazione. Rachid Nini, in quanto giornalista non avrebbe dovuto essere giudicato in base al codice penale, ma in base a quello deontologico della stampa, le cui regole non lo avrebbero certo condannato. Prova ne è che sta ricevendo grandissima solidarietà , anche dai giornalisti che non hanno le sue stesse posizioni e dai politici che ha attaccato sul suo giornale. C’è stata una precisa volontà  persecutoria nei suoi confronti. Secondo le norme deontologiche della stampa, perché un giornalista venga perseguito occorre infatti che diversi organismi che si considerano parte offesa presentino denuncia contro il diffamatore. Ma nessuno ha mai denunciato il mio assistito. Dunque, occorreva perseguirlo penalmente per «disinformazione», in realtà  per le sue inchieste scottanti in fatto di corruzione. Un processo vergognoso, che non si poteva avallare senza protestare. E il collegio di difesa l’ha fatto, dimettendosi polemicamente durante il primo grado.
Una prima domanda di libertà  è stata rifiutata. Su quali basi ne avete presentato un’altra ieri?
L’arresto di Rachid Nini è illegale. Da pochi giorni, è un’evidenza giuridica. Mentre prima le prigioni dipendevano dal Ministero della giustizia, ora – in base a una recente riforma – le carceri rispondono a un’istanza indipendente che fa capo al ministero dell’Interno. Questo implica una palese violazione dell’articolo 608 che dice chiaramente: nessuno può essere detenuto da altra istanza che non sia dipendente dal ministero della Giustizia. Ora il governo si trova in una posizione di illegalità  nei confronti dei suoi cittadini detenuti, come il mio assistito. Altrimenti si deve cambiare la legge.
Ha potuto visitare in carcere il suo cliente? Come lo ha trovato?
Il morale è buono, sa di avere moltissima solidarietà , sia nel paese che a livello internazionale. Non è in una sezione di detenuti politici, ma fra i criminali comuni. Non ha subito maltrattamenti fisici, piuttosto pressioni psicologiche. Non può avere una penna, né la carta per scrivere, non può telefonare, a differenza degli altri reclusi.
Com’è la situazione nelle carceri marocchine?
Oltre ai prigionieri islamici, vi sono molti arrestati per le manifestazioni di protesta del 20 febbraio: sindacalisti, operai, studenti, per lo più accusati di reati che non hanno compiuto. Sul piano della giustizia, i cambiamenti promessi non si vedono. Quando si accetta di avere anche un solo prigioniero politico, è la sconfitta della giustizia. Ci sono state importanti proposte di riforma nella nuova costituzione, ma non c’è volontà  politica di cambiare realmente le cose, di fare in modo che la legge sia veramente uguale per tutti e indipendente. Una luce di speranza si è accesa quando 600 giovani magistrati hanno formato un club per presentare proposte al ministero degli Interni. Giovani giudici dalle idee avanzate che s’incontrano, discutono, propongono. Ma per vedere applicate le loro idee ci vorrebbe appunto una volontà  politica che tarda a venire.
Lei è anche in prima fila nelle cause internazionali contro le violazioni ai diritti umani commesse dal governo israeliano. Come valuta l’iniziativa presa da Abu Mazen all’Onu?
È davvero singolare che Barack Obama dica: il problema palestinese non si risolve all’Onu. Come se lo stato di Israele non fosse nato per volontà  internazionale. E comunque, anche se lo stato palestinese venisse riconosciuto dall’Onu, perché non rimanga un’operazione di facciata, perché la situazione cambi davvero occorre una posizione ferma dei paesi arabi verso Israele, e serve la resistenza dei palestinesi all’occupazione. Per come stanno le cose, non penso che quella dei due stati sia una soluzione effettiva, credo piuttosto alla prospettiva di uno stato laico, con capitale Gerusalemme, in cui tutti possano vivere democraticamente e in pace.


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